Lirica
CHE FINE HA FATTO LA PICCOLA IRENE? - CAVALLERIA RUSTICANA

COMUNE SICILIANITA'

COMUNE SICILIANITA'

La sicilianità è l’elemento che accomuna i due atti unici presentati in un dittico inedito a Genova: “Che fine ha fatto la piccola Irene?” del compositore siciliano contemporaneo Marco Betta e “Cavalleria Rusticana” di Pietro Mascagni.
L’opera da camera di Betta (rappresentata per la prima volta a Siena nel 2003 ma nuova per il palcoscenico genovese) ha come soggetto uno dei  racconti scritti da  Andrea Camilleri per il quotidiano  “La Stampa” dedicati al commissario di bordo Cecé Collura (collega e amico del più illustre Montalbano) e racconta della sparizione di una neonata, la piccola Irene,durante una crociera. L’indagine del commissario appurerà che la bambina, morta in realtà cinque anni prima, non è mai stata imbarcata, ma ha continuato a vivere nella mente depressa della madre nelle fattezze di una bambola e di un pianto registrato. Svelato l’enigma e capito il dramma della donna, il commissario preferirà confermare l’illusione dichiarando che la bambina è stata ritrovata.

Camilleri è un trait d’union fra le due opere in quanto, oltre ad avere fornito il soggetto per la prima, ha dato l’idea per la regia della seconda curata da  Rocco Martelliti, regista e attore siciliano, “allievo” e amico di Camilleri.
L’operina di Betta, definita un “Singspiel” in quanto parti parlate e cantate si alternano in eguale misura, prevede un largo uso del siciliano per esprimere i pensieri e le riflessioni del protagonista e  l’inconfondibile voce registrata di Camilleri apre e chiude l’opera in guisa di commento fuori campo.

L’impianto scenico di Italo Grassi vede il ponte in teak di una nave oltre il quale un video simile a un rendering in 3D simula una nave in procinto di  lasciare la banchina di un porto, Genova per l’appunto, per iniziare la crociera. L’immagine in movimento elaborata al computer, stilizzata e dai colori innaturali, è una simulazione volutamente virtuale, come del resto la vicenda e i suoi protagonisti di cui vengono evidenziati dallo scrittore le componenti di finzione (“un finto commissario di bordo, un finto cantante, una finta bambina.. Cecé non ebbe più la forza di spiarsi se quella crociera era vera o virtuale“) .
Bianche  pareti scorrevoli chiudono la scena per ricreare l’interno della nave, con un grande oblò al centro oltre il quale si vede un mare increspato di onde digitali.
Nella prima parte ci sono divagazioni superflue, come la scena della rasatura di Collura con tanto di disquisizioni su pelo e contropelo o lo spettacolo dei mimi per gli ospiti nella lounge, ma dall’entrata in scena della madre l’opera trova la giusta atmosfera “alla Camilleri“, dove  il gusto dell’indagine  e della ricerca della verità viene associato a una riflessione umana ironica e partecipe.

Dal punto di vista musicale l’opera è godibile per la scrittura leggera e di facile fruizione che accompagna  come una musica da film il dipanarsi della vicenda. Seppur musica contemporanea, è tutt’altro che  ostica, anzi appare decisamente familiare, affiorano squarci di verismo, melodie orecchiabili e ripetute, frammenti jazz da piano da bar. E anche il parlato marcato dal dialetto ha lo stile colloquiale e leggero “alla Camilleri” e la sua fluida comunicativa.

Danilo Formaggia è un  Cecé Collura credibile per la parlata siciliana disinvolta e la voce tenorile intonata che dà giusto rilievo agli ariosi, in particolare all’assolo finale che costituisce una pacata riflessione sui dolori della vita. Nel ruolo della madre Maria Dragoni convince per le doti d’interprete, ma la voce è apparsa affaticata e poco a fuoco. Paola Ghigo , compositrice e musicista nella vita, interpreta Giorgia, la cantante di piano bar che si sa bene accompagnare al piano. Puntuale  il vice Scipio Premuda di Naoyuki Okada, dalla bella voce il Comandante di Fabrizio Beggi.

Nella seconda parte del dittico passiamo dalla crociera virtuale hi-tech a una Sicilia rurale povera e petrosa. La scena di Cavalleria abbozza un grigio paesino di montagna, con  il sagrato su cui si affaccia da un lato un’osteria e dall’altro una scalinata in pietra con la facciata di una chiesa. Il video sullo sfondo mostra un colle con un paesino in lontananza e un cielo plumbeo dove si muovono nubi e  stormi di uccelli.
Grande rilievo (forse troppo) è dato alle controscene che raccontano la vita quotidiana del paese  e che portano in scena immagini e personaggi che affiorano dalla memoria di Camilleri: il giovane ubriaco scacciato da Mamma Lucia con il fazzoletto come fosse una mosca ma che torna perennemente in scena, la mendicante, la vecchia nobile portata alla funzione in portantina con tanto di agnello pasquale di marzapane. Con tocco poliziesco Santuzza è testimone di un abbraccio degli amanti  nel preludio e raccoglie da terra un indizio, quanto basta per fare scattare il dramma e alla fine per chiudere la vendetta con gesto ieratico s’infilerà al collo una collana rossa coprendosi  il capo con un velo.

Giovanna Casolla, di cui avevamo già apprezzato l’ottima forma vocale in occasione della recente Turandot genovese, è una Santuzza eccellente da tutti i punti di vista; la voce è emozionante per ampiezza e  potenza, ma anche per duttilità e capacità di controllo che le consentono di sfumare la poderosa massa vocale in pianissimi struggenti (a titolo di esempio bellissimo il suo “Turiddu mi tolse l’onore“ quasi soffocato per pudore), di lanciare invettive di fuoco (la mala Pasqua), piegando la voce alle esigenze del testo e della situazione psicologica con un fraseggio pieno di scavo e bagliori: ne esce una figura sfaccettata e moderna, a priori perdente, ha un’aura di dignità, forza e decisione da personaggio autenticamente tragico. Rubens Pellizzari è un Turiddu giovane  e disinvolto; seppur non sia dotato di mezzi vocali travolgenti  (in alcuni momenti la parte vorrebbe maggiore  squillo) risolve con gusto, a partire dalla Siciliana, le insidie del ruolo e convince nel duetto con Santuzza e nell’addio alla madre. Alberto Mastromarino è un Alfio solido, dalla  voce particolarmente ampia e potente, protervo e brutale quanto basta. La mamma Lucia di Maria Josè Trullu, molto presente in scena e dalla voce  scura e pastosa,  è una figura complessa e riconoscibile che ben esprime i contraddittori sentimenti che la agitano.
Silvia Regazzo è una Lola avvenente e credibile e la voce ha suggestive ombreggiature che contribuiscono alla sensualità del personaggio.

Funzionale ed appropriata in entrambe le opere la direzione di Dario Lucantoni, che con buon senso teatrale ha impresso giusta tensione all’arco narrativo. Nel caso di Cavalleria una lettura nel solco della tradizione, attenta ai momenti d’impeto e d’abbandono, ma equilibrata e priva di inutili eccessi. L’orchestra del Carlo Felice è apparsa in buona forma e dal suono pulito, come pure il coro preparato da Marco Balderi.

Un pubblico piuttosto numeroso ha mostrato gradire entrambe le proposte riservando a tutti applausi generosi.  

Visto il
al Carlo Felice di Genova (GE)