È interessante parlare di Chinglish proprio in questi giorni, in cui il rapporto tra Oriente e Occidente è di straordinaria attualità per via della canzone che ha vinto il Festival di Sanremo. Se Occidentali’s Karma ha avuto il merito di farci intuire quanto siamo buffi e paradossali nel tentare di calarci con parametri nostri in una cultura che non ci appartiene, Chinglish ha senz'altro l'acume di mostrarci come la difficoltà di capirsi appartenga a tutte le culture e, in fondo, non sia altro che un rimando alla difficoltà di comunicare tra esseri umani.
La pièce porta in scena con leggerezza e divertimento un microcosmo particolare, quello delle trattative d’affari internazionali, in cui è spesso un ruolo cruciale è giocato da maldestri traduttori, imbarazzi e scelte incongrue: così una semplice riunione finisce per essere punteggiata dal canto incomprensibile del Ministro cinese, dalla sua idea della geografia americana, oppure da gesti “globalizzati” e avulsi dal contesto, quali “battere il cinque” o fare segno di ok con il pollice.
Chinglish è anzitutto un gran bel testo che sorregge bene la messa in scena, portando alla luce temi attuali e di interesse per tutti: la Cina sempre più vicina, i famigerati States a caccia di affari, i dialoghi nel villaggio globale in quello strano grammelot che è appunto il cinglese, cioè la mescolanza tra inglese e cinese, con esiti spesso paradossali sul senso e sulla costruzione della frase (così, “attenzione, pendio scivoloso” diventa “le scivolose sono molto scaltre”, oppure “bagno per disabili” si trasforma in “bagno per uomo deformato”, e così via, ndr.).
Tuttavia, questa difficoltà di capirsi non si esprime solo nelle traduzioni paradossali, ma anche in un’ambiguità di piani tra vero e falso, realtà e finzione che molto ricorda l’impronta di grandi autori, quali Pirandello, Beckett, Ionesco soprattutto.
Lo sfortunato titolare della ditta Cartelli Ohio, nel suo tentativo maldestro di far fruttare il suo business in Cina, crede di farcela quando abbandona la simulazione per iniziare a dire il vero; in realtà, è proprio in quel momento che si addentra nel profondo di una vicenda paradossale, facendo forse breccia nel “muro” culturale tra Oriente e Occidente, ma uscendone non vincitore, bensì pedina di manovre troppo più grandi di lui.
E’ un mondo di pesci grandi che inghiottono quelli piccoli, il villaggio globale di Chinglish: un luogo del tutto deprivato di etica, in cui da tempo immemore si è perso il senso dell'umanità e dei sentimenti. Il rispetto, l’amicizia, soprattutto l’amore sono ideali impossibili, un lusso concesso a pochi, forse a nessuno (nella trappola feroce del cinglese una piccola storpiatura della pronuncia di “amore” lo trasforma in modo emblematico nella parola “polvere”); inoltre, il tracollo finanziario della Enron paradossalmente apre la strada al nuovo successo, ovvero a quella che i protagonisti chiamano “la porta sul retro”, un sistema clientelare di favori in realtà di antiche e consolidate origini.
Suggestiva in questo senso l'idea che, in un mondo di “sommersi e salvati”, il senso autentico della cultura si colga nell’imminenza della fine: così, è proprio il Ministro, poco prima di essere arrestato, a ricordare la grande la muraglia cinese, costruita anche con le ossa di migliaia di schiavi, un po’ come a dire che il progresso è una grande opera che polverizza alcuni per salvare altri, forse solo per distruggerli più tardi.
La messinscena è complessivamente ben riuscita e godibile, senza cadute di ritmo, al più con qualche trascurabile sbavatura nella recitazione. Coraggiosa e ben riuscita la scelta di far recitare attori italiani in una specie di cinese inventato, che lascia a loro disposizione una sorta di comunicazione fonetica, oltre che para-verbale. Molto generoso e credibile il ruolo della giovane interprete, che si cala con bravura nelle diverse varianti della figura di traduttrice peraltro, con status attoriali molto diversi; bravi tutti i protagonisti, con una viceministra cinese particolarmente duttile nel rendere i continui cambiamenti prodotti dai colpi di scena e dalla dinamiche di potere tra i personaggi. Interessante e coerente con il testo la scelta di una scenografia astratta, composta dai pochi elementi modulari dei tavolini, con cui si rendono tutti gli ambienti in scena. Coraggiosa anche la scelta di tutti i cambi scena in luce, forse con la possibilità di rendere in qualche caso più marcato il cambio dei luoghi (soprattutto perché la commedia si gioca su ambientazioni molto diverse quali la sede del ministero, il bar, l'albergo).
Chinglish è comunque un testo avvicente, una pièce che tiene gli spettatori piacevolmente legali alla poltrona: uno sguardo leggero, ma profondo e amaro, sui paradossi dello scambio di culture, che ci vedono forse lontani, ma ugualmente vinti e lontani da una dimensione di etica e sostenibilità.