È una Russia distopica, ai limiti dell’apocalittico, quella rappresentata con grande potenza visiva da Mario Martone del nuovo allestimento di Chovanščina.
È una Russia distopica, ai limiti dell’apocalittico, quella rappresentata con grande potenza visiva da Mario Martone del nuovo allestimento di Chovanščina di Modest Musorgskij che ha debuttato al Teatro alla Scala.
Nelle suggestive scenografie di Margherita Palli si ergono nel primo atto ciminiere che rimandano alla Los Angeles di Blade Runner mentre il cielo azzurro su cui si staglia un’enorme luna nell’ultimo atto ricorda le atmosfere rarefatte dei film di Andrej Tarkovskij.
Un futuro prossimo di distruzione e violenza
La vicenda è ambientata in un futuro prossimo in cui l’intrigo tra Ivan Chovanskij e Dosifej è documentato da una foto scattata con il cellulare, la lettera della zarina Sofia a Golicyn è un sms e l’esilio dello stesso Golycyn è visto in streaming dal popolo. Come se l’epoca di instabilità e lotte per il potere definita “dei torbidi” che caratterizzò la storia russa tra il XVI e XVII secolo e precedette gli avvenimenti qui rappresentati, fosse il nostro presente e quelle che vediamo sulla scena le sue immediate conseguenze.
La complessa drammaturgia che vede intrecciarsi politica, amore e fanatismo religioso, è efficacemente dipanata da Martone, che sottolinea il clima di distruzione e violenza con immagini forti: Marfa chiusa in gabbia a sopportare le angherie di Susanna o gli strel’cy sgozzati in pubblico.
Regia e direzione in grande sintonia
La regia si muove in grande sintonia con la magnifica direzione di Valerj Gergiev, che esalta la componente drammatica della partitura, sottolineandone i contrasti ed esaltando gli aspetti più cupi. La narrazione è fluida, spedita, tuttavia sono molti i passaggi in cui il direttore dilata i tempi e si sofferma sui passaggi più lirici, attingendo ad una tavolozza di colori straordinaria. Gergiev opta, come è naturale, per l’orchestrazione di Šostakovic, operando però alcuni tagli, tra cui i finali del secondo e del quinto atto, scelte assolutamente coerenti con la sua linea interpretativa.
Il coro vero protagonista
Quest’opera policentrica richiede un cast di interpreti di prim’ordine, ma il vero protagonista è il coro, per il quale Musorgskij ha scritto alcune tra le pagine più belle di tutta la sua produzione. Il coro del Teatro Alla Scala, preparato da Bruno Casoni, che ci ha abituato ad esecuzione di altissimo livello, in quest’occasione si è addirittura superato offrendoci un’interpretazione memorabile.
Michail Petrenko è un Ivan Chovanskij dal timbro fibroso e dalla linea di canto frastagliata, che risolve il sui personaggio in modo più muscolare che musicale. All’opposto, il Dosifej di Stanislav Trofimov, che forse non ha tutto il peso vocale che il ruolo richiederebbe, risulta molto convincente grazie ad una linea di canto duttile ed un fraseggio morbido ed articolato.
Punte d’eccellenza del cast sono la Marfa intensa e musicalissima di Ekaterina Semenchuk e lo Šaklovityj incisivo e perfettamente timbrato di Alexey Markov. Sergey Skorokhodov è un Andrej Chovanskij impetuoso, dal timbro squillante e dalla voce ben proiettata, mentre Evgeny Akimov, oltre a fornire una convincente prova vocale, coglie molto bene la complessa psicologia di Golycin, ambiguo diplomatico filo occidentale.
Tra gli altri interpreti si segnalano lo scrivano di Maxim Paster, l’Emma di Evgenia Muraveva e la Susanna di Irina Vaschenko. Grande l’entusiasmo del pubblico in sala per uno spettacolo assolutamente da non perdere.