Eva Riccobono interpreta la Giovane Donna senza sbavature o cedimenti, controlla il corpo così come il linguaggio. La regia della Shammah, seppur come sempre attenta, finisce per rendere a volte faticosa la comprensione del testo.
Andrée Ruth Shammah porta in scena Coltelli nelle galline di David Harrower, con protagonista Eva Riccobono. Un testo denso e complesso, ambientato in una imprecisata campagna scozzese dove i tre protagonisti confliggono in una storia di amore e morte, dove le parole, quelle che si utilizzano comunemente ma soprattutto quelle che uomini e donne cercano per illuminare il proprio mondo, sono il vero e indiscusso obiettivo della scrittura drammaturgica e della messa in scena.
Le parole sono importanti
Le parole non sono mai solo parole, non sono mai solo flatus vocis, ma sono desideri, visioni, legami, perfino sintesi. La Giovane Donna (Eva Riccobono), della quale non sapremo mai il nome, è una contadina caparbia, abituata alla fatica e sottomessa al proprio marito. Di lui sì che è declinato il nome, Willams, come quello dell’altro personaggio, il mugnaio Gilbert Horn. L’universo maschile è dunque riconoscibile, ha un nome, persino un soprannome, Willams è detto Pony dal suo amore per i cavalli e per le puledre extra-coniugali, mentre quello femminile giace nell’indeterminatezza.
La Giovane Donna si sforza di imparare nuove parole e soprattutto di riconoscere i nessi che le rendono significative, fino a quando scopre che le parole si possono addirittura scrivere grazie ad uno strano oggetto chiamato penna e diventare così altro rispetto a semplici definizioni grazie alle quali indicare le cose. Le parole diventano così sirene, scandiscono un sortilegio e la Giovane Donna, con la stessa ostinazione con cui imparava a pronunciarle, comincia a scriverle per raccontare quello che ha dentro. Nasce così un’affinità con Gilbert. Costui, accusato dal villaggio di aver ucciso la moglie, le apre gli occhi, le fa vedere i continui tradimenti del marito e diventa sua complice nell’ucciderlo.
Sono le parole, dunque, a rompere infine l’idillio. Tutta la vicenda si svolge in uno spazio scenico affollato di modellini che, spostati di volta in volta dagli attori, rappresentano i diversi scenari, ma anche una microstoria, nella quale i cambiamenti esplodono in maniera deflagrante.
Eva Riccobono interpreta la Giovane Donna senza sbavature o cedimenti, controlla il corpo così come il linguaggio: ogni parola per lei è un tentativo di codificare la realtà, ma un tentativo non basta mai, così la parola viene ripetuta fino allo spasimo, perché ne emerga il significato. La Riccobono è in scena tesa e attenta, sa essere la donna soffocata dal giogo nuziale e sociale, ma anche la Pandora che svuota il proprio vaso interiore, lasciando che tutto fluisca con forza e persino con violenza, con la quale ordirà la morte del marito.
I suoi compagni di viaggio sono Pietro Micci, un Gilbert equilibrato ed essenziale, e Alberto Astori, a tratti un po’ gigioneggiante nei panni di Pony Willams. La regia della Shammah, seppur come sempre attenta, finisce per rendere a volte faticosa la comprensione del testo: modellini, statuette, fondali che si aprono e si spostano, rastrelli, sacchi di farina, foglie secche, proiezioni sembrano in alcuni momenti ingabbiare gli interpreti, più che liberarli e consegnarli alla forza delle parole. Uno spettacolo sulla parola, ma forse con troppi segni estranei alla parola stessa.