Prosa
COME EVITA, PIù DI EVITA, MI AMERò

Perenne Peròn

Perenne Peròn

La scena disegna quasi un camerino di avanspettacolo, per quello che dovrebbe essere lo spogliatoio di Maria Eva Duarte de Perón, al secolo Evita, il personaggio che nella storia dell'Argentina è entrato di diritto nella leggenda, seconda moglie del Presidente Peròn e -epiteto perfino ufficiale- guida spirituale del popolo: il monologo di Arnolfo Petri si snoda in un'alternanza fra memories di solennità e bassezze in forma di linguaggio che tende all'osceno e che non salva nessuno, dalla famiglia allo stesso cancro che la divora, bersagliando con particolare disprezzo sia la madre, sia Fanny Jacovkis, meglio conosciuta come Fanny Edelman, storica compagna di vita politica.

 

La narrazione di un giorno di ordinaria follia e disperazione scorre come come se la regia avesse alzato sul mixer tutti i livelli degli eccessi, in ogni idea che passa per la mente di Evita e che voglia raccontare, in un giorno in cui campeggia la parata del Presidente Truman a Buenos Aires, e non risparmiando la memoria di alcuno, una ricostruzione del lato nascosto di ogni attimo entrato invece in senso opposto nella storia e nella leggenda.

Evita risalta soprattutto come l'emblema della persona che nasce dal nulla, ovvero dall'esperienza dei descamisados che hanno distrutto il potere dell'oligarchia con la forza delle idee, per essere però poi distrutta ella stessa, e proprio dalle stesse cose contro cui aveva combattuto: le persone intorno a lei comprano tutto dopo che lei aveva comprato tutto, in una metafora del potere che è anche religioso ed affaristico. Un atto di accusa verso il potere e tutto ciò che vi gira intorno, divorando affetti, relazioni, dignità.

L'ispirazione della regia ripercorre il testo di Raul Damona del 1969, gli anni degli artisti argentini del gruppo "Tse" emigrati a Parigi, un lavoro che egli stesso portò in scena e che viene affrontato in modo così esasperato da andare ben oltre il personaggio, portando a considerare che se si può riproporre Evita così, allora forse significa che si può ripensare chiunque, in termini di rilettura degli sconfitti (e la donna ne era icona sovrana), i quali in quanto perdenti, detto senza alcun riferimento a pregiudizi, buone intenzioni e perfino percorsi di vita da idolatria quasi messianica, in realtà odiano se stessi in forma di autolesionismo, aggredendo e ferendo con ferocia sé ed il resto del mondo. Forse per questo se ne rilegge anche la morte: Evita entrò in coma e morì dopo otto giorni, a 33 anni, il 26 luglio 1952; nella drammaturgia ruvida ed aggressiva, la sua fine diventa il suicidio della paziente E. P., affetta da sindrome schizoide depressiva.

Visto il 31-01-2013
al Il Primo di Napoli (NA)