Che cos’altro poteva essere uno spettacolo che ha come protagonisti i due fisici fondatori della meccanica quantistica – Niels Bohr con il suo principio della complementarità e Werner Heisenberg con il principio di indeterminazione – se non un insieme di probabilità? “Copenaghen” di Michael Frayn non è un testo teatrale, è un’ipotesi, un esperimento scientifico, un dibattito serrato sugli oscuri corridoi della storia del Novecento che ha al centro due figure fondamentali per la scienze e il progresso umani; due persone che avrebbero potuto cambiare il mondo e, nel bene e nel male, forse lo hanno fatto.
Su un palcoscenico in cui domina il colore nero e che crea l’illusione di essere in un’aula universitaria ad anfiteatro, circondata da lavagne istoriate da formule di fisica, si aggirano, si incontrano, si scontrano, come le particelle che compongono l’interno di un atomo, Bohr-Orsini, il padre e maestro, Margrethe-Lojodice, la madre, Heisenberg-Popolizio, il figlio e discepolo. Ormai fantasmi, ombre dei tre storici personaggi, cercano di ricostruire per tentativi, passo dopo passo, esperimento dopo esperimento, l’ormai mitico incontro tra i due premi Nobel, nella casa di Bohr a Copenaghen, nel 1941. Lo spettacolo ha la struttura di un racconto giallo ‘alla Christie’, nel quale però tutti i personaggi sono gli investigatori di se stessi; le ipotesi si susseguono, la scena dell’incontro viene ripetuta, uguale e diversa, in un’ossessionante ricerca della verità. Che cosa confidò Heisenberg a Bohr nel 1941 di tanto sconvolgente da rompere improvvisamente la loro amicizia decennale? Heisenberg voleva che il suo maestro, per metà ebreo e inviso al regime nazista, lo sostenesse negli esperimenti sulla fissione nucleare per il Terzo Reich? Chiedeva aiuto, consiglio, comprensione? O piuttosto cercava di sapere quanto Bohr fosse informato sugli esperimenti nucleari degli Alleati? Chi era il nemico dell’umanità fra i due? Heisenberg, lo scienziato filonazista che non arrivò mai alla bomba atomica, o l’ebreo Bohr, che partecipò al Progetto Manhattan negli Stati Uniti?
Le simpatie del pubblico, travolto da uno sciorinare di formule matematiche, teorie fisiche, dati, deduzioni, ipotesi, spiegazioni, oscillano tra il rassicurante Bohr di Umberto Orsini, il padre e marito, l’ebreo perseguitato da Hitler, l’anziano esule costretto a rinunciare alla propria università per salvarsi la vita, e l’angosciato Heisenberg di Massimo Popolizio, tormentato dagli spettri delle proprie colpe, arrovellato dagli amletici dubbi sulla moralità di un’arma come la bomba atomica. Le due facce dello scienziato sono tenute in equilibrio dalla figura della moglie di Bohr interpretata da Giuliana Lojodice, che incalza ora l’uno ora l’altro perché cerchino dentro di sé le risposte alle domande esplicitate dalla sceneggiatura.
Non c’è soluzione al caso. Nessuno saprà mai come siano realmente andate le cose tra i due fisici. L’ipotesi verso cui Michael Frayn orienta il suo pubblico è che in realtà Heisenberg, forse per non macchiarsi della morte di migliaia di persone innocenti, abbia deliberatamente rallentato e ostacolato il progetto nazista, omettendo di calcolare la massa critica dell’uranio per costruire la bomba, mentre Bohr partecipava, anche se marginalmente, alla costruzione della tragedia di Hiroshima.
Difficile da seguire, spettacolo non per tutti i palati, “Copenaghen” ha mandato in sollucchero i matematici, gli amanti delle scienze, i numerosi studenti in sala, ma è riuscito a catalizzare l’attenzione anche di coloro che hanno abbandonato lo studio della fisica da qualche tempo. Il merito è di un testo avvincente, nonostante la complessità dell’argomento, e della mirabile interpretazione di tre grandissimi attori, affiatati da dieci anni di repliche.
Assolutamente superflua l’introduzione iniziale di Orsini al testo di Frayn, che, pur nella sua enigmaticità, ha il pregio di affascinare e attrarre senza bisogno di spiegazioni e giustificazioni.
Bergamo, Teatro Donizetti, 31 marzo 2009
Visto il
al
Diana
di Napoli
(NA)