Un thriller scientifico-politico che ruota intorno a questo grande interrogativo riguardante un evento realmente accaduto: nel settembre 1941 il fisico Werner Heisenberg fa visita al suo ex maestro Niels Bohr a Copenaghen, in una Danimarca occupata dai nazisti. A distanza di settant’anni i dubbi e le ipotesi che vennero formulate all’epoca sul motivo dell’incontro e sul suo esito, rivivono in questa pièce, dove i fantasmi dei due amici- collaboratori e della moglie di Bohr, testimone dell’incontro, danno vita a un capolavoro teatrale di vibrante forza intellettuale e di notevole caratura artistica.
Entrambi geniali ricercatori nel campo della meccanica quantistica e legati da un affetto profondo, Heisenberg e Bohr vengono separati dall’avvento del regime nazista. Bohr è un ebreo danese che non si sente sicuro nemmeno in patria, mentre Heisenberg è un tedesco non aderente al regime.
Entrambi coinvolti nel progetto della costruzione di ordigni bellici nucleari fra cui la bomba atomica, l’uno collaboratore degli Alleati insieme ad un nutrito gruppo di fisici ebrei fuggiti dalla Germania nazista, l’altro direttore delle ricerche tedesche, danno vita ad un duello verbale avvincente durante il quale sfilano argomentazioni scientifiche, disquisizioni teoriche, formulazioni matematiche…
Ma la cosa miracolosa è che parlando di principi di fisica teorica, di uranio 235 e di plutonio, di ciclotrone, lo spettatore viene catturato, assorbito, quasi ipnotizzato dal discorso, in cui le questioni morali, etiche, umane serpeggiano per farsi via via sempre più stringenti.
L’asse portante attorno al quale ruota lo spettacolo è dunque il motivo per cui Heisenberg andò a Copenaghen a trovare Bohr. Voleva, in nome della vecchia amicizia, offrire a Bohr l’appoggio politico delle SS in cambio di qualche segreto? O avere delucidazioni sull’applicazione pratica dei fondamenti teorici della fissione nucleare, in quanto egli poco avvezzo alla fisica applicata? Oppure sapere da Bohr se questa applicazione avesse dei risvolti etici, in quanto egli era tormentato moralmente in quanto tedesco ma non seguace degli ideali nazisti?
Oppure sapere se Bohr stesse collaborando con gli Alleati, per trovare in via bilaterale un accordo al fine di fermare, o perlomeno rallentare, le ricerche sulla costruzione delle armi nucleari?
La risposta non c’è.
La matassa si ingarbuglia ulteriormente allorchè vengono alla luce i fatti successivi a quella visita, veri e presunti. La catastrofe di Hiroshima fu un’operazione degli Alleati, non del Terzo Reich. Alla sua realizzazione finale collaborò lo stesso Bohr perché i tedeschi non vi arrivarono in tempo. Se l’avessero avuto prima loro la bomba, forse l’avrebbero sganciata su Londra o Parigi. Perché non vi arrivarono prima? Perché forse non disponevano di risorse economiche congrue alla sua costruzione? O perché uno dei loro responsabili, inorridito al pensiero delle sue conseguenze, sbagliò apposta qualche cifra? E se l’artefice di questo fosse stato proprio Heisenberg? Ancora supposizioni prendono corpo nel testo di Frayn, anch’esse senza trovare risposta.
Frayn immagina un incontro a posteriori, in una collocazione spazio-temporale indefinita, in cui i piani temporali si sovrappongono, dando un valore universale alle questioni poste dai protagonisti. Fatto sta che le diverse ipotesi fatte all’epoca vengono qui enunciate una dopo l’altra e quindi vengono messi in scena diversi incontri fra i due fisici, con diversi andamenti. Viene quindi a tradursi metaforicamente, come struttura portante dell’impianto drammaturgico, quel Principio di Indeterminazione e di Complementarità pronunciati molte volte nella pièce e così determinanti per l’elaborazione della teoria della relatività ad opera di Einstein.
Non è possibile una sola verità oppure una sintesi efficace delle diverse verità perché una verità è semplicemente un punto di vista, il punto di vista di chi l’ha enunciata. Tutto è umano, niente è assoluto. Si possono avere solamente risposte indeterminate e quindi la somma degli scenari possibili, anche di quell’incontro fra i due fisici.
La regia di Mauro Avogadro è essenziale, quasi minimalista. Sulla scena grava il buio, su cui si stagliano le tre figure protagoniste vestite di grigio scuro ( costumi di Gabriele Mayer ) le quali si muovono su uno spazio altrettanto scuro realizzato da Giacomo Andrico in cui compaiono solo tre sedie metalliche, una serie di nere lavagne sullo sfondo e una breve scalinata tipica di un anfiteatro. Tutto è quindi avvolto dalla nebbia del passato, del ricordo offuscato che stenta a rinverdire, della terra di nessuno a cui sembrano ancora appartenere gli interrogativi e le questioni riemersi dopo così tanti anni, l'indeterminatezza delle responsabilità e delle colpe nonchè l'insondabilità delle tragedie e del dolore che caratterizzano la vita umana.
Il bianco appartiene ai numeri, alle parole, ai disegni scritti sulle lavagne e che man mano vengono tracciati dai due uomini. E' un tentativo di rimanere aggrappati a qualcosa, di ristabilire un pur fragile contatto con la vita attraverso le proprie conoscenze da cui si possono ricavare formule, teoremi, dimostrazioni. Ma l'indimostrabile continua ad affiorare nel serrato confronto fra Bohr e Heisenberg. La disputa raziocinante si mescola con continue allusioni a responsabilità proprie ed altrui sullo sfondo della tragedia collettiva, le rigorose argomentazioni lasciano filtrare i sensi di colpa, la sicurezza quasi stentorea dei due premi Nobel vacilla allorchè il ricordo di dolori e tragedie personali invade le loro coscienze.
Il testo di Copenaghen lascia senza fiato, viene raggiunto un equilibrio perfetto fra le varie tematiche, fra le ragioni scientifiche e le ragioni etiche, fra le ragioni politiche e le ragioni umane, fra le ragioni collettive e quelle private, fra le ragioni della mente e quelle del cuore.
“Prima che possiamo affermare qualcosa, la nostra vita è finita…sepolti da tutta la polvere che abbiamo sollevato…quando l’uomo non ci sarà più, non ci sarà più indeterminazione, non ci sarà più conoscenza.” afferma Bohr alla fine dello spettacolo. Il Novecento così come la vita umana sono fatti di tante zone grigie, di tanto silenzio, ma finchè esisterà l'uomo si cercherà sempre, in mezzo al vuoto che ci circonda e alla polvere sollevata, la traccia rarefatta di una particella di chiarezza e di verità che, comunque, ci salverà.
Le personalità dei due fisici non sono univocamente caratterizzate. Umbratile e umorale ma con slanci paterni e amabili Bohr, Heisenberg con la sua snervante e dolorosa ansia appare il più ambiguo e indeterminato come il principio da lui per primo enunciato. Mentre Margrethe, moglie di Bohr, vive con una partecipazione interiore e una lucidità di intenzioni emozionanti il proprio ruolo di testimone, commentando e alludendo con amara consapevolezza.
Inutile dire che il grande valore del testo, divenuto ormai un classico contemporaneo del teatro, non sarebbe emerso in modo così mirabile senza un trio di attori superlativo quali Umberto Orsini (peraltro a lui va il merito se il testo è stato portato anche in Italia), Massimo Popolizio e Giuliana Lojodice, i quali hanno saputo esprimerne tutta la complessità drammaturgica mettendo bene in evidenza i diversi piani di lettura e interpretando i personaggi dando risalto alle loro sfaccettate psicologie.
È per questo che Copenaghen è in tournée con inalterato successo da ben 11 anni.