“Così fan tutte” segna il superamento del materialismo meccanicistico settecentesco a favore dell'esigenza, già totalmente romantica, di leggere la realtà secondo valori metaforici intrinseci alla coscienza dell'uomo e di tenere, come riferimento, i sentimenti. Alla luce delle teorie otto-novecentesche, molti registi e studiosi hanno analizzato i rapporti di coppia dell'opera, gli equilibri e le forzature, con risultati assai diversi. Pier Luigi Pizzi sceglie un andamento narrativo, chiaro e comprensibile, che non tenta agganci psicanalitici né scivola verso le inquietudini dell'anima, ma racconta una storia di ragazzi, una vicenda divertente e di travestimenti con il gusto del gioco e l'attenuante della giovinezza, nel rispetto stretto del libretto.
Punto di forza degli allestimenti di Pizzi sono sempre scene e costumi. La scenografia fissa presenta una ripa di mare davanti ad un villino bianco inondato di luce chiara, un'immagine che da sola rasserena e predispone al buonumore. La spiaggia è circondata da scogli, in mezzo un pattino arenato. I movimenti si svolgono principalmente sulla spiaggia, ma anche sulla terrazza al piano terra, collegata alla spiaggia da una scala, e sullo spazio in alto, una veranda coperta da un telo elegantemente steso su una struttura di ferro, senza tempo.
I costumi situano l'azione nel Settecento e sottolineano alcuni snodi: le due dame sono vestite di bianco all'inizio (leggere e svolazzanti sottovesti da casa), di nero dopo la partenza degli amati (con tanto di velo luttuoso), di nuovo di bianco dopo la capitolazione con gli stranieri (abiti da ricevimento ma austeri). I due protagonisti hanno, nel travestimento, begli abiti da dervisci turchi con tanto di cappelli in feltro muniti di pon pon. Come nel Don Giovanni dell'anno scorso, le maschere degli uomini sono realizzate in modo filologico, con un nastro di stoffa avvolto intorno al capo per alterare i lineamenti. Don Alfonso e Despina vestono nei toni caldi e dorati del giallo e dell'avorio.
Sapienti le luci di Vincenzo Raponi, che nel finale virano verso un azzurro serale.
La regia mette i sei protagonisti da soli in scena mentre il coro è in buca con l'orchestra, calca la mano su uno spinto cameratismo goliardico (fin troppo) che lega i due ragazzi e i ragazzi con le ragazze, al punto che le pulsioni sessuali esplodono irrefrenabili e immediate.
Efficacemente il regista individua ogni protagonista a seconda del dato caratteriale. L'opera è allestita in modo narrativo, come si diceva, consentendo agli spettatori di seguire il plot con divertimento. Particolare la trovata di mettere in scena, al momento del commiato prima della partenza per il campo militare, i quattro tutti attaccati, con le mani di Guglielmo che, abbracciando Fiordiligi, palpano Dorabella e le mani di Ferrando che, abbracciando Dorabella, palpano Fiordiligi (chissà quanto inconsapevolmente). Stessa scena che si ripete nel finale con identiche posizioni e modalità, nonostante le coppie, dopo le rivelazioni, si siano ricostituite come ex ante.
Questa regia presuppone un cast affiatato, cantanti credibili fisicamente ed adeguati vocalmente: non si poteva ottenere di meglio.
Carmela Remigio (Fiordiligi) è in uno dei suoi ruoli migliori, che si adatta perfettamente alle sue voce e bellezza, una Fiordiligi matura e riflessiva. Con aderenza canta “Come scoglio immoto resta” in piedi sopra uno scoglio, gestendo benissimo le sonorità e gli affondi dell'aria. La Remigio è sempre sicura nelle agilità, come anche nelle discese nel grave. Perfetto il rondò “Per pietà, ben mio, perdona” le cui lunghe frasi non la portano mai al limite. Esprime con molte sfumature il vacillare di Fiodiligi nel duetto con Ferrando, un irresistibile Paolo Fanale dall'aspetto da bravo ragazzo.
Ketevan Kemoklidze è una Dorabella giovanile e capricciosa, dalla voce scura e piena bene usata in ogni momento. Convince nella celebre “E' amore un ladroncello” e mai corre il rischio di essere coperta dagli altri, dotata di un registro centrale importante e carico di colori densi, pastosi, che però non la limitano nelle salite.
Markus Werba è un Guglielmo spavaldo, sicuro di sé, burlone e provocatore nei confronti dell'amico; la voce è sempre bella e duttile e ben si comprende il cedimento di Dorabella all'ascoltare “Il cuore vi dono” cantato con tali toni e accenti e quel contegno dongiovannesco. La voce di Werba è luminosa e scura, capace di tradursi in insinuante sensualità, come anche di sfruttare l'accento irruente e ridanciano che costituisce la chiave di volta di un personaggio reso con entusiasmo giovanile ma, al tempo stesso, con accenti vari e sfumati, ricchi di chiaroscuri e una emissione morbida e scorrevole.
Una vera rivelazione ci è parso Paolo Fanale (Ferrando): voce corposa e sensualmente materica, registri a fuoco, in particolare il centrale è venato di scurezze che ne aumentano la capacità seduttiva, l'acuto è importante ma controllato, il grave sonoro e vellutato. Il suo Ferrando è sensibile e riflessivo, trascinato nella goliardia cameratesca dalla irruenza dell'amico Guglielmo, a cui però risponde con più misura e compostezza; tira i sassi all'amico sulla spiaggia afferrandoli con le dita dei piedi, ribatte alle provocazioni dell'altro più che agire motu proprio. Sicuro del tradimento di Dorabella, il tenore getta a terra il medaglione come se scottasse, salvo poi immediatamente raccoglierlo con infinito amore: l'amore si nutre di amore, per lui che è ancora, e nonostante tutto, innamorato per davvero. La sua aria “Un'aura amorosa” è affrontata alla perfezione, con toni di grande passione e tenerezza (senza la tristezza dell'edizione di Parigi) e acuti saldi e pieni. Da rilevare che entrambi i protagonisti, Werba e Fanale, mostrano fisici atletici, fanno flessioni, piegamenti, saltellano qua e là, si arrampicano su scogli e balaustre, si stendono a terra e corrono senza che le voci mai ne risentano.
Giacinta Nicotra è una Despina brillante e spigliata, che poco enfatizza i due travestimenti ma diverte con battute in napoletano. William Shimell è un Don Alfonso maturo, elegante e nobile nell'aspetto, di gran classe nel contegno, piuttosto monotono negli accenti. È lui che muove l'azione: a sipario chiuso appare sul boccascena e, con un gesto imperioso con l'ombrello rosso, dà l'attacco all'orchestra e toglie il velo che chiude il proscenio, scoprendo la scena.
Meno ha convinto Daniel Kawka alla direzione dell'orchestra filarmonica marchigiana: tempi allargati, suoni non abbastanza leggeri e trasparenti (forse anche a causa della buca orchestrale, che ovatta il respiro di un'orchestra ridotta mozartiana); manca quell'energica speditezza tutta settecentesca, come anche il rimando continuo ad un sottotesto di ambiguità che costituisce l'ossatura della partitura.
Posizionato in buca insieme all'orchestra, quindi invisibile al pubblico, il coro lirico marchigiano è stato adeguatamente preparato da David Crescenzi.
Teatro esaurito, pubblico divertito, moltissimi applausi.