Lirica
COSì FAN TUTTE

GRAND HOTEL MOZART

GRAND HOTEL MOZART

Damiano Michieletto porta felicemente a compimento la trilogia mozartiana, ambientando Così fan tutte in un moderno, elegante hotel e utilizzando l'impianto girevole delle due precedenti opere che gli aveva fatto vincere il premio Abbiati. Quattro gli ambienti che sfilano, quelli tipici degli alberghi: reception, bar, camera con bagno, ascensore. La spersonalizzazione della location (non più casa delle sorelle in Napoli ma anonimo hotel dove tutti sono di passaggio) aumenta il senso di straniamento dell'amore, che introduce al finale drammatico, in cui nulla si ricompone e ciascuno vive (e piange) la propria solitudine. Una situazione scavata nella viva carne del contemporaneo.

L'azione è mossa da un Don Alfonso alcolizzato e interiormente alla deriva, il quale decide di proposito di disunire le due coppie di fidanzati. Despina, ovviamente, è la cameriera addetta ai piani alla prese con aspirapolvere, stracci e scope. Tutto funziona alla perfezione, anche se Despina, al posto del cioccolatte, “assaggia” il profumo di Fiordiligi e il “guarda sorella” è piuttosto rivolto alle seducenti foto della rivista Men's health. Meno convincono i due travestimenti di Despina, che invero non si traveste: non è lei il dottore bensì una comparsa e, nei panni del notaio, indossa solo giacca e cappello sopra il vestito da sera. Ma il resto è tutto appassionante, dall'inizio alla fine; una narrazione che si lascia ben seguire e conquista il pubblico, anche con qualche risata.

L'amore non è durevole. L'amore è effimero secondo Damiano Michieletto, come quel fiammifero che Don Alfonso accende e tiene in mano sia durante “E' la fede delle femmine” che il occasione del decreto “Così fan tutte”: un amore che brilla solo un istante e poi si spegne con un soffio.
Tutto è mera finzione: i borsoni “Marina Militare” di Guglielmo e Ferrando sono pieni di fogli di quotidiani accartocciati e le loro divise non potrebbero apparire più posticce (basterebbero i lunghi capelli di Markus Werba nascosti sotto il berretto). Le due sorelle non sono certamente innocenti: già nella reception, durante il primo atto, occhieggiano un bel tipo che si sta registrando.
Michieletto è esperto uomo di teatro e di sentimenti e pone attenzione a ogni vibrazione dell'anima, traducendola in gesti efficaci: durante “Un'aura amorosa” Ferrando è da solo, si accorge che Dorabella ha dimenticato il giubbetto su una poltrona e lo stringe a sé; poi la ragazza torna indietro a prendere il giubbetto e si incontrano per un istante di infinita poesia.
Don Alfonso chiama con il telefono interno le sorelle alla festa che si sta svolgendo nel bar, dove gli amati cantano al karaoke la loro passione. Le porte scorrevoli dell'ascensore sono determinanti per le schermaglie amorose e quella luce che indica lo scorrere dei piani lascia intendere il tempo che passa e la vita degli altri.
Il finale creato dal regista dà ancora più senso all'opera. Un finale che va contro le parole, ma non si potrebbe pensare a nulla di più appropriato:  “Fortunato l'uom che prende ogni cosa pel buon verso e tra i casi e le vicende da ragion guidar si fa. Quel che suole altrui far piangere fia per lui cagion di riso e del mondo in mezzo ai turbini bella calma troverà”. Ma, si sa, facile a dirsi..

La scena di Paolo Fantin è perfettamente utilizzata: gli interni rimandano al contemporaneo (il bagno con la doccia ipertecnologica) ma boiserie e mobilio tradiscono una passione per gli anni Settanta, come anche gli abiti giustissimi di Carla Teti. A completamento le luci azzeccate di Fabio Barettin, che rendono il tutto mai claustrofobico ma, al tempo stesso, mai arioso.

Appropriati e  credibili nei ruoli sia fisicamente che vocalmente i sei protagonisti, omogeneamente amalgamati e curatissimi dal punto di vista attoriale.
Markus Werba è un Guglielmo dallo sguardo furbo e dalle movenze spigliate; rispetto alle precedenti prove del ruolo (recente quella di Ancona) il baritono rivela accenti maggiormente malinconici, venature iscurite che rendono concreta una passione amorosa che va ben oltre il contegno spregiudicato e scherzosamente dongiovannesco, preludendo al finale di cui si è detto: una prova di maturità notevole da parte di Markus Werba, sperando sia ancora egli nel cast delle riprese del prossimo anno. Accanto a lui Marlin Miller è corretto e si adegua vocalmente al tono di autunnalità voluto da Michieletto. Andrea Concetti è Don Alfonso “cattivo” nel profondo, forse ferito da una vita ingrata: è un direttore d'hotel coi capelli lisci e untuosi e ampia stempiatura, un uomo alcolizzato e in disfacimento fisico e morale, la cui vita a brandelli lo rende incapace di accettare l'altrui felicità, quasi obbligandolo a infastidire gli altri, Despina in primis, che è sua subordinata nel lavoro; vocalmente Concetti è padrone del ruolo al punto di personalizzarlo con la complicità di un regista attento come Michieletto.
Maria Bengtsson è una Fiordilidi di nordica e bionda bellezza, alta e slanciata e con voce capace di salire all'acuto come di scendere nel grave, granitica come lo Scoglio dell'aria; particolarmente seducenti le mezzevoci e quel cantare in alcuni momenti come un sussurro in punta di labbra che attenua l'algore. Accanto a lei ben completa la componente femminile Josè Maria Lo Monaco, il cui registro corposo e scuro crea una Dorabella femminile e mediterranea, moderna ma, al tempo stesso, ben contestualizzata nel plot mozartiano: certo non è una ragazza con la testa vuota, svuotata da vestiti alla moda e rotocalchi patinati ma una ragazza volitiva e sicura di sè. Una presenza forte che caratterizza l'allestimento è anche la Despina di Caterina Di Tonno, chamber maid in grembiule che sogna una vita diversa ma finisce anch'essa vittima delle macchine di Don Alfonso, accasciata sul bancone del bar con la sigaretta tra le labbra.

Antonello Manacorda dirige con tempi a momenti allargati e un suono che non brilla per freschezza e omogeneità: le percussioni sono un poco rumorose, gli archi invece morbidamente distesi, i fiati qua e là in evidenza. Ma l'opera è da ascoltare per il cembalo emozionante di Roberta Ferrari, già presente nell'ouverture e poi a dare un carattere tutto nuovo e mai sentito ai recitativi: bravissima. Giusto il coro preparato da Claudio Marino Moretti, la cui presenza in scena è essenziale per lo svolgersi della vicenda.

Teatro gremito, moltissimi applausi sia a scena aperta che nel finale. Ora non resta che aspettare la primavera 2013, quando le tre opere si intrecceranno in un maggio mozartiano lagunare irripetibile.

Visto il
al La Fenice di Venezia (VE)