Costano cari gli dei è un monologo scritto da Giampiero Cicciò e portato in scena da Marco Rea sotto la sua regia. Il testo ci presenta un uomo giovane, in carcere, colto in un lungo soliloquio (tranne i momenti in cui si rivolge a un vicino di cella mussulmano), nel quale dipana un discorso che, partendo dalla sua prestanza atletica e fisica, va a indagare sul suo vissuto di giovane e giovanissimo, che si prostituisce nei bagni della stazione termini da quando aveva 13 anni coi bambini zingari, fino all'incontro con un intellettuale e ricco uomo di lettere, soprannominato Oscar Wilde, che lo educa alla letteratura, alla poesia, alla musica e al sesso tra uomini, in cambio di denaro e regali.
Ben concertato registicamente, nello spazio minuto del teatro Stanze segrete, in pochissimi metri quadri Rea evoca le sbarre, l'impiantito e il giaciglio del carcere, fa gli esercizi fisici per mantenersi in forma anche in cella, rivive le performance che coinvolgevano le sue doti virili, la possanza del suo membro, la potenza improsciugabile dei suoi orgasmi, tutti resi con concreto realismo senza ostentazioni né falsi pudori.
L'approccio sociologico dal quale Cicciò guarda a questo prostituto ci sembra quello pasoliniano di un proletariato che si lascia sedurre dai soldi facili, incolto ma non refrattario alla cultura che però vive come un orpello esornativo che, di per sé, non accresce né dà da mangiare. Una sociologia lontana dalla contemporaneità che vede le prestazioni sessuali in cambio di denaro diffuse tra la gioventù più in erba, dove l'estrazione sociale non è più così dirimente visto che ci si prostituisce non certo per necessità.
Il finalissimo che vede il giovane uomo danzare il tip-tap nel carcere chiude lo spettacolo con un guizzo felliniano che connota ancora di più la cornice narrativa da anni 50/60 del secolo scorso. Privo di moralismi sulla prostituzione il testo suggerisce un limite ineluttabile tra vecchiaia maschile e omoerotismo dando per scontata l'impossibilità per i giovani di amare disinteressatamente i vecchi, una constatazione che appare un po' desolante oltre che menzognera.
Così come desolante appare la sorte di questo mentorecliente che finisce per essere ucciso per mano del suo pupillo (che è dunque in carcere per l'omicidio) in una considerazione verghiana che non batte ciglio nel collegare la morte violenta all'amore mercenario. Nessun elemento nel carattere anticipa la furia assassina del protagonista lasciandola del tutto inspiegata e suscettibile di facili letture psicologiste.
Il prostituto descritto da Cicciò si inserisce in un filone di storie e caratterizzazioni dalla fisonomia definita e consolidata. Non spiccando particolarmente per originalità viene da chiedersi cui prodest una ennesima storia in cui l'omoerotismo, tanto bistrattato in un paese che non riconosce uguali diritti, arrivi a teatro declinato sempre e solamente secondo le coordinate del sesso per denaro e della morte senza che, anche in un contesto mercenario, trapeli mai nemmeno un attimo di amore e desiderio.