“Cuore di Cane”, romanzo breve scritto da Bulgakov nel 1925 ma per motivi di censura pubblicato solo nel 1987, ha fornito il soggetto per una nuova opera lirica commissionata dalla Dutch National Opera al musicista russo Alexander Raskatov. L’opera, dopo essere stata rappresentata nel 2010 ad Amsterdam e Londra in versione inglese, giunge ora sul palcoscenico della Scala nella traduzione russa curata da George Edelman. Il libretto originale scritto da Cesare Mazzonis è in italiano ma la versione in russo ci sembra giustificata in quanto stilisticamente più appropriata al tipo di vocalità e alla musica eclettica che sembra sgorgare dalla memoria del compositore, in cui echi di salmodiare religioso e canzoni popolari slave s’innestano in un tessuto musicale stratificato che, per quanto distorto, rimanda alla grande tradizione russa novecentesca (Shostakovich, Stravinski, Prokoviev).
La fantastica quanto grottesca vicenda offre una satira feroce della manipolazione scientifica e narra di un cane randagio agonizzante (Šarik) che viene raccolto con falsa pietà da uno scienziato per sottoporlo al trapianto di organi umani e creare un nuovo incrocio. Ma il risultato è fallimentare in quanto l’uomo-cane Sarikov (caricatura dell’uomo nuovo che voleva creare il regime) è una creatura distruttiva dedita all’oscenità e al turpiloquio (oltre che alla delazione politica) e per il professore non c’è altra soluzione che ritrasformarlo in cane. Rispetto al romanzo di Bulgakov l’opera ha un finale pessimista in quanto, nonostante la creatura ibrida ritorni un cane docile ed inoffensivo, tanti replicanti di Sarikov invadono la scena con ferocia pronti a sferrare un attacco.
L’opera adotta principalmente il punto di vista del cane e la sua capacità di giudizio critica nei confronti dell’ambiente circostante: il Professore borghese e il suo assistente, i pazienti che vogliono ringiovanire, i proletari post rivoluzionari, i vicini morbosi... Il cane è qui una stilizzata, ma riconoscibile, carcassa metallica mossa da abili marionettisti e ha due voci distinte: una “buona” affidata al canto cristallino di un controtenore che ne esprime sogni e riflessioni e una “cattiva” dove la voce sopranile distorta da una sorta di megafono ne coglie l’aspetto più animale e ne rimanda un ringhiare gracchiante e ostile. Il cane diventato uomo (interpretato da un tenore buffo) è una creatura ben più bestiale dell’animale di partenza e porta alle estreme conseguenze volgarità e violenza tutte umane.
Il soggetto non è dei più facili da mettere in scena ma Simon Mc Burney firma uno spettacolo davvero efficace dove risultano ben integrati mezzi stilistici diversi e sulla scena convivono e interagiscono il cane metallico mosso dai marionettisti, i cantanti dai movimenti curatissimi (coreografia di Toby Sedgwick) i compagni che sventolano bandiere rosse sulla scena o sullo schermo nei filmati di propaganda in bianco e nero.
Perfettamente funzionale anche l’impianto scenico di Michael Levine, costituito principalmente da una quinta di fondo che funziona da schermo per i video di Finn Ross (la tempesta di neve iniziale, i sogni del cane, immagini in bianco e nero di sfilate di regime, edifici moscoviti, i tasti di una gigantesca macchina per scrivere che scandiscono il racconto) e che, rivestita da carta da parati, suggerisce l’interno borghese della casa del professore. Ed è proprio lungo la superficie della quinta inclinata che scorrerà, con un effetto a imbuto, il sangue dell’uomo-cane nell’ultima manipolazione.
Sorge un dubbio: prima la musica o la sua rappresentazione? Sembra che la musica abbia più un ruolo di commento piuttosto che generare la situazione. Per essere moderna l’opera di Rastakov manca di effettiva novità; se pur ben fatto, si tratta sempre di un pastiche che non riesce a generare il giusto stato di tensione e, nella prima parte, marcata da forte eclettismo, si avvertono digressioni e lungaggini. La seconda parte è più incisiva e coesa e la cupa tinta orchestrale, dovuta al largo uso di ottoni e percussioni dalle dissonanze allucinate, sembra preludere al finale dove tanti cloni di Sarikov ringhiano a cappella negando ogni happy end.
Il professore Filip Filippovič è il protagonista indiscusso e Paulo Szot ne restituisce autorevolezza e carisma scenico con una bella voce brunita sufficientemente duttile e differenziata. Bene anche Ville Rusanen nei panni dell’assistente Bormental. Peter Hoare è un Sarikov irrefrenabile e simpatico nelle sue esagerazioni gestuali e verbali, dal movimento scenico scattante e ferino e una voce tenorile che si presta con ironia al canto sguaiato e gergale. Elena Vassileva, oltre alla cuoca Dar‘ja, dona forte spessore drammatico alla Voce sgradevole di Šarik. Nancy Allen Lundy è una cameriera tutta saltelli e sovracuti. Molto bene Andrew Watts, la voce gradevole di Sarik. Per la voce minacciosa e autorevole ci è piaciuto Graeme Danby nei panni del grande capo (ovvero nella caricatura di Stalin). Scenicamente spigliata e dagli acuti sicuri la giovane Sophie Desmars nel ruolo della fidanzata di Sarikov. Matthew Hargreaves è l’investigatore. Brian Galliford è spassoso nel ruolo del paziente che insegue l’eterna giovinezza. Diverte anche Annett Andriesen, seconda paziente ninfomane. I quattro proletari sono interpretati da Sophie Desmars, Andrew Watts, Vasily Efimov, Evgeny Stanimirov. Un plauso ai marionettisti Blind Summit Theatre (Mark Down, Nick Barnes) per aver dato anima e cuore a un ammasso di ferraglie.
Martyn Brabbins dirige con musicalità e precisione una partitura particolarmente articolata e mutevole dove anche gli elementi dissonanti e stranianti risultano in equilibrio. Particolarmente affiatata l’orchestra.
Ottima la prova dell’Ensemble vocale “Il canto di Orfeo” diretto da Ruben Jais e Gianluca Capuano.
L’ultima rappresentazione è stata accolta con punte di entusiasmo da un pubblico particolarmente numeroso: un segnale importante che testimonia l’attenzione crescente nei confronti dell’opera contemporanea.