Lirica
CYRANO DE BERGERAC

Milano, teatro alla Scala, “C…

Milano, teatro alla Scala, “C…
Milano, teatro alla Scala, “Cyrano de Bergerac” di Franco Alfano IL PROTAGONISTA ASSOLUTO I più ricordano Franco Alfano come colui a cui fu affidato, nel 1925, il compito di terminare, sugli appunti lasciati da Puccini, la Turandot. Ma il compositore napoletano, perfezionatosi a Lipsia, ha una vasta produzione che risente dell’anima partenopea e del soggiorno tedesco, aperta a una larga contabilità e al tempo stesso strumentalmente densa e timbricamente ricercata. “Cyrano” ha avuto poca fortuna in Italia, dalla prima nel 1936 a Roma è passata alla Scala una sola volta nel 1954. Il libretto è splendido, fedele all’originale di Rostand. C’era attesa a Milano per questo allestimento proveniente dal MET, coprodotto con la Royal Opera House Covent Garden. Spettacolo in realtà deludente. A cominciare da una regia poco più che decorativa, maggiormente dedita ai movimenti in scena (nulla di nuovo invero, anzi i movimenti delle masse sono goffi, per non dire degli imbarazzanti duelli) che a scavare nei caratteri dei personaggi. E non aiutata dalla scenografia. Bella nel primo atto; di maniera, se vogliamo, ai limiti del kitsch, va bene, però che cattura l’occhio, con quella prospettiva di palchi da cui si affacciano gli spettatori e la ricostruzione del teatro nel teatro con lo spettacolo sul palcoscenico mentre la gente a far di tutto in platea (in piedi, com’era di rigore). Meno interessante ma pur bella scena d’interno nella pasticceria. Poi un “decrescendo” sia quantitativo che qualitativo. Ahimè brutta l'attesa scena del balcone, vistosamente artificiale, le case ridotte a cubi rosa e la scala a pioli funzionale forse ma zero poesia: due uncini la agganciano con un sonoro “clang” alla balaustra, il bacio diventa una necessità, se non un'ovvietà. La scena di battaglia avviene tra ruderi di mattoni e il cortile del convento appare quasi surreale, un altro tipo di linguaggio rispetto ai primi due atti, come se, dopo l’intervallo, avessero utilizzato le scene di altri allestimenti. Da registrare però la velocità e la precisione dei cambi scena. I costumi sono pizzi e colori pastello. Pizzi, si badi bene, senza nulla a che vedere con il creatore dei costumi della Stuarda che si alterna a Cyrano sul palco della Scala, perchè quei costumi sono i più belli possibili. Per fare un esempio Roxane in rosa confetto e boccoli, una bella bambolina invece della donna forte e determinata che è. Ma anche i guasconi sono boccoluti, scontato, da immagine stereotipata. E che dire di De Guiche? Prima bianchi pizzi sopra gli stivaloni neri, poi una veste corta da chierichetto splendente di lustrini. Il motivo di interesse era dato dal “topone”, come i fans chiamano Placido Domingo, la cui voce non è quella di un tempo ma la cui presenza scenica è sempre fortissima, il carisma forse aumentato (anche se si suppone Cyrano sia molto più giovane). La lunghezza della parte richiede un impegno fisico notevole, ma la voce è fresca dal punto di vista del suono e lui è abile nell'usarla al meglio. Quel poco di stanchezza che trapela dalla voce non fa altro che aumentare il fascino del personaggio, il cui pathos travolge gli spettatori e, nel finale, immancabilmente commuove: l’agnizione, la consapevolezza che la vita è stata inutile perché hai vissuto nel ricordo di quello che non è mai stato e invece avevi a portata di mano quello che poteva essere (e non è stato, ora che è troppo tardi). Sondra Rodvanovski è una Roxane dalla voce importante dal punto di vista del volume ma sempre controllata, coi registri centrale e grave corposi e senza difficoltà nell’acuto, seppure poco morbida, poco intrisa di romanticismo. Christian, un poco bamboleggiante, era German Villar, voce di volume non enorme ma pulita e luminosa, squillante, con un bel timbro. Ottimo il De Guiche di Pietro Spagnoli, voce solida, bel colore ambrato, una presenza scenica notevole (nonostante i brutti costumi) che dà risalto al personaggio e permette di coglierlo sotto un aspetto non scontato, più umano, più ricco di sentimenti: evidentemente Spagnoli ha indagato le pieghe del personaggio con calma e il risultato è da apprezzare. Con loro bravi tutti i comprimari, un buon cast in cui vanno segnalati il Carbon di Simone Alberghini, il Ragueneau di Carmelo Corrado Caruso e il gigantesco Le Bret di Claudio Sgura. Bene anche il coro, preparato da Bruno Casoni. La partitura ha alcune belle pagine, soprattutto il quarto atto, più intimo e riuscito oppure il tema dei soldati, che unisce forza e coraggio, come nel mestiere delle armi. Evidenti richiami a Puccini e ad un certo Strauss. Però il direttore Patrick Fournillier non convince, nonostante coglie i riferimenti francesi e gli agganci con l'italianità. Teatro strapieno, successo per tutti, soprattutto per Placido Domingo, protagonista assoluto. FRANCESCO RAPACCIONI
Visto il
al Teatro Alla Scala di Milano (MI)