Milano, teatro alla Scala, “Da una casa di morti (Z mrtvého domu)” di Leoš Janáček
MEMORIE DAL CARCERE
“Da una casa di morti” è l'ultima opera di Leoš Janáček, composta tra il 1927 e il 1928, anno della morte del compositore, ed andata in scena la prima volta nel teatro Nazionale di Brno nel 1930. Basata sulle oscure memorie di Dostoevskij dalle prigioni zariste (scritte all'inizio degli anni Sessanta dell'Ottocento), in “Da una casa di morti” scompaiono gli elementi legati al folklore (come nei precedenti lavori) e si fanno più cupi gli accenti di desolato pessimismo. Il libretto nella stesura originale presentava un impasto linguistico di ceco, russo e dialetti slavi, ma venne ridotto in ceco dal regista Zitek, in occasione della prima rappresentazione ed è questo che ora viene utilizzato nello spettacolo, una grande coproduzione internazionale pluripremiata, andata in scena a Vienna, Amsterdam, Aix-en-Provence (diretto da Pierre Boulez) e New York, diretto da Esa-Pekka Salonen come a Milano.
“Da una casa di morti” è un dramma praticamente corale, il dramma quotidiano dei detenuti in Siberia, visto attraverso gli occhi di un nuovo arrivato. L'opera non ha né un protagonista né una vera struttura, essendo imperniata in brevi scene. Ma Patrice Chéreau riesce a creare una drammaturgia efficace e incalzante, proponendo un atto unico di grande emozionalità che ritrae in modo terribilmente claustrofobico l'inferno carcerario, un magma indistinto di sofferenza e marginalità da cui emergono alcune figure, gli uomini che raccontano le loro vicende di un tempo precedente, al di fuori della prigionia.
Il regista ha situato la vicenda in un carcere del Novecento, in quanto è una vicenda di segregazioni e spasimi di libertà non necessariamente collegata alle prigioni zariste dostoesvkiane oppure al tempo della scrittura musicale. L'opera è corale, si diceva, e da subito una massa si aggira nello spazio. Finisce l'ouverture e una luce accecante e fredda si riverbera sul palco. I prigionieri lottano e si accapigliano per un bicchiere d'acqua, le caviglie legate rendono grottesche le movenze nel camminare e nel correre. I detenuti litigano furiosamente, pieni di rabbia. Oppure giocano al calcio con una scarpa. Terribilmente efficace la scena della doccia con il gruppo di uomini nudi e in mutande che si rivestono impauriti e tremanti sotto le angherie e le vessazioni dei carcerieri, forse alcuni di loro dei kapò, detenuti elevati al rango delle guardie, i peggiori.
L'apparire di Gojančikov è ancora più efficace per essere il cantante di colore: egli viene spogliato, rasato, umiliato, deriso (terribile la perdita degli occhiali, quegli occhiali che ad Aljeja sembrano un tesoro), con una agghiacciante corrispondenza con i recenti fatti milanesi di cronaca. Gojančikov viene riempito di botte, la maglia bianca è lorda di sangue, egli striscia a quattro zampe cercando un buco in cui rifugiarsi come un animale, sotto gli occhi atterriti di Aljeja, con il quale si instaura subito un rapporto di profonda solidarietà.
Nel breve spazio di silenzio tra primo e secondo atto un mucchio di rifiuti (libri, giornali, bottiglie di plastica, vestiti) cade con un tonfo sonoro dall'alto e si spalanca il muro di fondo scena verso il buio totale, un nero assorbente, da cui avanza un gruppo di detenuti che si mette a rovistare e raccogliere e recuperare tra i rifiuti, per poi gettare tutto insieme in un telo di nylon. L'inutilità delle azioni in un tempo che non significa nulla, in un tempo che scorre invano: l'asfissia della vita in forzata solitudine, fisica o affettiva.
La pantomima del secondo atto viene recitata per spettatori seduti su gradinate di legno, rivolgendo attori, mimi e cantanti le spalle al pubblico in sala in un contesto particolarmente incalzante e coinvolgente, improntato a un crudo realismo. Sulle gradinate, oltre gli ergastolani, gerarchi con le loro signore e un pope.
L'ultimo atto è ambientato nel dormitorio, dove si fanno ancora più evidenti i problemi mentali di alcuni detenuti che sembrano addirittura lasciarsi morire: è forse quella la vita? Lettucci di ferro, luci al neon fredde, coperte lise e lacere: l'umanità degradata, non solo perchè privata della libertà. Le azioni dei detenuti, misurate, quasi impercettibili, fanno da controscena al lungo racconto di Šiškov su un letto privo di materasso con solo un tavolaccio. E, nel finale, l'illusione struggente dell'aquila che vola via, quell'aquila che, sin dall'inizio, volava solo grazie alle braccia-mani-parole dei detenuti.
Richard Peduzzi ha foderato la scena con alte pareti grigie di cemento, prive di aperture che formano spigoli vivi (come gli archi incandescenti dell'orchestra), uno spazio che via via diventa cortile per l'ora d'aria, stanzone chiuso del carcere, locale docce, teatrino, dormitorio, con pochi sapienti movimenti delle quinte avanti e indietro, volumi che avanzano o indietreggiano modificando la massa compatta, anche solo con lo spostamento-sfasamento dei muri. In questo spazio corpi si aggirano come fantasmi, privati di volontà e personalità, monadi fluttuanti, fin dall'inizio, nella penombra: incontro e scontro, lo sfiorarsi di anime sole.
Azzeccati e curatissimi nei dettagli i costumi di Caroline De Vivaise. Perfette, impossibile fare di meglio, le luci di Bertrand Couderc, che danno alla scena un senso di straniamento ma anche di profonda concretezza. Con il regista ha collaborato Thierry Thieu Niang.
Esa-Pekka Salonen è straordinario, ascoltarlo dal vivo è una rara ed intensa emozione. Il suo approccio è, se possibile, cerebrale e al tempo stesso profondamente emozionale: ragione e sentimento. Il direttore riesce a creare una tensione continua, amplificata dall'eseguire i tre atti di seguito; il suono è pulito, ruvido e con ampi respiri, crudo e nostalgico, sempre e comunque palpitante; l'analisi della pagina musicale è lucida, piena di energia. E l'orchestra lo segue in un modo che genera brividi. Da augurarsi una futura presenza del direttore finlandese alla Scala e in Italia.
Il cast proviene quasi completamente dal debutto viennese ed ha fatto le altre piazze, per cui c'è affiatamento e cura della gestualità e della mimica che rendono l'opera così coinvolgente ed emozionante. Tutti ottimi i cantanti per un'opera che non prevede alcun protagonista, a cominciare da Willard White (Gojančikov), Eric Stoklossa (Aljeja), Stefan Margita (Luka), John Mark Ainsley (Čekunov), Peter Hoare (Šapkin) e soprattutto Peter Mattei (Šiškov). Ma non sono da meno Peter Straka, Vladimir Chmelo, Jiri Sulzenko, Heinz Zednik, Jan Galla, Thomas Krejcirik, Alexandar Stefanoski, Alover Dumait, Susannah Haberfeld, Ales Jenis, Marian Pavlovic, Andreas Conrad. Sono fondamentali nella rappresentazione i numerosi attori: Roberto Adriani, Antonio Amore, Stefano Annonni, Paolo Bufalino, Alessio Calciolari, Fabrizio Cantaro, Antonio Caporilli, Daniele Gaggianesi, Pietro Gandini, Enzo Giraldo, Karl Hoess, Igor Loddo, Pierpaolo Nizzola, Lorenzo Piccolo, Franco Reffo, Damyr Shuford.
E, least but not at least, il coro, perfettamente preparato da Bruno Casoni, coro che ha una parte rilevante nell'economia di questa opera e che pare davvero “parte dall'essere umano per far splendere scintille divine”, come scrisse Leoš Janáček in epigrafe alla partitura.
Qualche posto vuoto a teatro, pubblico in visibilio, applausi interminabili: un trionfo. Meritatissimo, per uno degli spettacoli più belli di questi ultimi anni non solo alla Scala. Imperdibile.
Visto a Milano, teatro alla Scala, il 28 febbraio 2010
FRANCESCO RAPACCIONI
Visto il
al
Teatro Alla Scala
di Milano
(MI)