È con delle “massime poco cristiane” che Edoardo Sylos Labini, da solo sul palco, davanti al sipario ancora chiuso, dà il via alla sua interpretazione di Gabriele D’Annunzio, rivolgendosi verso il pubblico ed identificando immediatamente il personaggio con alcuni dei principi che ne determinarono lo stile di vita. “Guai agli umili!” grida, incitando i giovani ad essere sempre audaci, descrivendo un mondo dove l’agire incessantemente, il sapersi vendere (senza farsi troppi scrupoli) e l’amare appassionatamente (abbandonando ogni idea di fedeltà) appare incredibilmente contemporaneo, nel bene e nel male.
L’apertura del sipario scopre una scenografia raffinata, curata nei dettagli, che con stoffe, mobili ed accessori ricercati, rievoca gli interni del Vittoriale degli Italiani; al centro, sullo sfondo, come un quadro vivente, campeggia il dj Antonello Aprea con la sua strumentazione, che viene mostrato attraverso una grossa cornice, il quale, di tanto in tanto, presta la propria voce a questo o quel personaggio minore. Il dj fa uso sapiente delle arie di Wagner, protagoniste insieme agli interpreti dello spettacolo; frequentemente distorte dall’elettronica, assumono sfumature inattese e contemporanee, accompagnando ed enfatizzando ogni scena della rappresentazione. Tra gli altri espedienti musicali ben riusciti, Aprea (nei panni del padre di Maria Hardouin) sfida D’Annunzio in un duello per certi versi “acustico”, in cui è unicamente Sylos Labini a muoversi, destreggiandosi abilmente con la sciabola.
Attorno al Vate si avvicendano, una alla volta, le donne che furono più importanti nella sua vita. Si svela come l’incontro e la relazione con la duchessina Maria Hardouin (Alice Viglioglia) – di cui si apprezzano gli abiti, riccamente decorati e fedeli allo stile della nobiltà dell’epoca -, in seguito divenuta sua moglie, fosse narrato dal poeta attraverso il personaggio di Andrea Sperelli ne “Il piacere” ed è a lei che dedica anche i versi di “Il peccato di maggio”. Pur essendo Maria la compagna “ufficiale” del Vate, nella visione di questa sceneggiatura, però, la donna ha un ruolo decisamente minore rispetto ad altre.
Viene poi ricreato, con un espediente di metateatro, l’incontro con Eleonora Duse (Viola Pornaro), il corteggiamento dell’attrice e poi la sua distruzione, dovuta alla volubilità e ai tradimenti di D’Annunzio – storia che rimanda alla trama del romanzo “Il fuoco”.
Ed è la volta della giovane pianista Luisa Baccara (Silvia Siravo) che, ossessionata dal desiderio per il Vate, sceglie una vita di reclusione, destinata a suonare solo per lui e a soffrire a lungo la malinconia e la gelosia, senza mai abbandonarlo.
Ma è la governante Amelie Mazoyer (Giorgia Sinicorni) la presenza più costante nella vita del protagonista, l’unica che sembra conoscerlo davvero e che sa smascherarlo facilmente, parlandogli con schiettezza ed è lei che, in questa rappresentazione, si fa spesso narratrice di tanti episodi che segnarono la sua esistenza.
Ciascuna interprete caratterizza efficacemente il suo ruolo femminile – notevole anche il lavoro di introspezione dei personaggi compiuto dal regista, Francesco Sala – ma tutte hanno in comune l’incapacità di resistere al carisma dell’uomo amato, la cui forza trascinante è resa viva dall’interpretazione catalizzante di Sylos Labini, che di D’Annunzio sembra aver assunto non solo l’aspetto – grazie allo studio della postura, delle movenze, della pettinatura e dell’abbigliamento – ma anche la capacità comunicativa, mantenendo sempre viva l’attenzione del pubblico.
Non si narrano solo vicissitudini amorose, però: ci sono riferimenti alle imprese del protagonista, dalle più personali e folli, come i suoi acquisti sconsiderati di oggetti preziosi – dettati da quel “bisogno per istinto del superfluo” -, alla creazione della società La Rinascente, al suo combattimento in guerra, durante il quale perde la pupilla dell’occhio destro – interessante escamotage di impatto visivo, la proiezione sul vapore dell’immagine di un occhio, quasi surreale – fino all’isolamento, all’uso ricorrente di cocaina e alla morte.
Per ultimo, è il testo de “La pioggia nel pineto” ad essere recitato integralmente dal protagonista, in una versione del tutto inaspettata, accesa, animata, in cui sembra di vedere lo stesso D’Annunzio rivivere quella adesione totale alle sensazioni forti suscitate dalla natura, fino alla metamorfosi in una creatura del bosco, insieme alla sua amata.
Tutto, in questo spettacolo, è perenne movimento e lo spettatore si sente, per un’ora e mezza, catapultato nella vita più intima di Gabriele D’Annunzio. I molti accenni alle opere letterarie – che non cadono mai nella lettura noiosa - insinuano il desiderio di riprendere in mano quei testi e rileggerli, forse valutandoli sotto una nuova prospettiva.