Rimane ben poco, oggi, di quel cuore nero e agghiacciante dal quale doveva sembrare emergere Dödsdansen (t.l. danza di morte) reso in un italiano edulcorato con Danza Macabra, scritto da Strindberg nel 1901, nel quale l'amore coniugale è presentato come esempio massimo di quella vita nel dolore che per Strindberg caratterizzava l'esistenza.
L'incapacità maschile di soddisfare le proprie ambizioni, la delusione femminile per una rinuncia all'autonomia, artistica e privata, che non ha portato alla vita gloriosa sperata, sono, a ben vedere, le due facce della stessa medaglia quei ruoli di genere che né Edgar né sua moglie Alicia sono stati in grado di ottemperare.
Adesso, dopo 25 anni di matrimonio, con due figli grandi ma ancora a scuola i due coniugi vivono nella costante attesa della morte che ponga fine al vuoto delle loro esistenze perché, come dice Edgar ad Alicia, Forse quando arriva la morte, comincia la vita.
A distanza di 113 anni (Danza Macabra ha debuttato al Festival di Spoleto nell'estate del 2014) la realtà coniugale e la disgregazione sociale descritte si sono avverate come una profezia e la terribile aura di morte che Strindberg preconizzava ha lasciato spazio a un macabro e grottesco post apocalisse, nel quale i personaggi del dramma sono sopravvissuti a se stessi e rinnovano una rappresentazione di sé invecchiata che Ronconi enfatizza in diversi modi a cominciare dalle scelte di cartellone. Adriana Asti, Giorgio Ferrara, Giovanni Crippa sono ben più in là con l'età di quella che i personaggi hanno nel dramma, come se Alicia e Edgar abbiano aspettato altri 25 anni e, ricoperti di polvere, stiano per celebrare le nozze d'oro piuttosto.
Anche la scena è grigia, come neri sono i vestiti e i mobili (dalle apparenze meccaniche e non solo quelli legati al telegrafo, scomparso invece il barometro che campeggia nel testo originali).
Sopravvissuti a se stessi Alicia e Edgar non sono più due personaggi tragici ma due maschere da vaudeville cui Ronconi si rifà per portare in scena il gioco delle apparenze borghesi dei due coniugi la cui esistenza è vuota e si anima appena hanno un ospite che possa assistere al loro gioco di cattiverie, (Kurt, il cucino di Alica) in un rapporto vampiresco di vite altrui cui indugiano palesemente tutti e tre.
Anche quel vento minaccioso che pare poter sconquassare le loro vite (e che in Strindberg era anche il segno di una vita vera tutta fuori dalla casa, fuori da quel ménage coniugale cui Edgar e Alicia si erano rinchiusi rifuggendo ogni vita sociale) scompagina letteralmente personaggi e mobili che si muovono a destra e manca della scena, come rami secchi che si piegano senza mai spezzarsi.
In stato di grazia Giorgio Ferrara, fratello di Giuliano e compagno da 45 anni di Adriana Asti, che regala al suo Edgar tutta la piccolezza del maschio caparbio e inconsapevole della propria ridicolaggine ma, lo stesso, capace di far del male, al quale si concede con una generosità e una intelligenza scenica uniche.
Gli fa da contraltare Giovanni Crippa, che interpreta un Kurt pavido, cauto, tremebondo quasi, cugino di Alicia che la donna concupisce per ribadire a se stessa di essere ancora in grado di sedurre, di recitare quel ruolo di donna piacente cui ha abdicato col matrimonio (lei che per sposarsi con Edgar ha rinunciato a una carriera d'attrice).
Adriana Asti si muove magnifica e infinita sulla scena grigia e cupa di Marco Rossi, capace di abbandonarsi al languore del desiderio per una vita che non è stata e di esultare per qualsiasi sommovimento del suo ménage familiare che la rallegra per ogni speranza di vendetta che può annunciare, unico guizzo di vita in una esistenza incentrata sull'attesa.
Si esce dalla sala divertiti sì, ma con un peso nel cuore che aumenta man mano che, tornando nelle nostre vite, paventiamo di ritrovarvi un poco le stesse angosce dei personaggi che credevamo di aver lasciati sulla scena.
Grande, magnifico teatro.