Lirica
DAS LIEBESVERBOT (IL DIVIETO D'AMARE)

Il giovane Wagner e il divieto d'amare

Il giovane Wagner e il divieto d'amare

Sarebbero passati alla storia Giuseppe Verdi e Richard Wagner, se si fossero fermati alla loro seconda opera? No di certo... Siamo all’incirca negli stessi anni: nel 1839 il primo lavoro di Verdi, “Oberto Conte di San Bonifacio”, riscuote un limitato interesse, anche perchè rivela solo in minima parte le potenzialità del compositore di Busseto. E, come è noto, l’anno dopo “Un giorno di regno” cade ingloriosamente, e non si può negare che il giudizio negativo del pubblico milanese non fosse obiettivo, dato che questo svigorito cimento potrebbe contendere ad “Alzira” l’ultimo posto nella graduatoria dei titoli verdiani. Quanto a Richard Wagner, “Die Feen”, la ‘zauberoper’ scritta nel 1833 quando l’autore era appena ventenne, non trova alcuna ospitalità e sarà eseguita solo cinque anni dopo la sua morte, nel giugno del 1888; mentre il secondo suo lavoro lirico, Das Liebesverbot, il 29 marzo 1836 vede sì la luce al Stadt-Theater di Magdeburgo – la sala dove Wagner ricopriva l’incarico di Kapellmeister – ma senza tuttavia andare oltre la prima recita; una esecuzione infelice guastata, tra l’altro, da un’orchestra inaffidabile e da una compagnia debole e persa in indecenti beghe dietro la scena. Sia per Verdi che per Wagner, insomma, il momento della definitiva affermazione arriva solamente con il terzo cimento operistico, “Nabucco” per l’uno e “Rienzi” per l’altro, approdati sulle scene - guarda caso – a poca distanza di mesi nel medesimo anno, cioè il 1842.

Di pagine interessanti ce ne sono: ma se non appartenesse al catalogo di un grandissimo musicista che poi avrebbe intrapreso ben altre strade, per la sua relativa importanza “Das Liebesverbot” resterebbe solo citata tra le righe di qualche saggio sugli autori minori dell’Ottocento. Fatto sta che Das Liebesverbot resta un titolo pochissimo rappresentato: in Italia s’è visto solo una volta a Palermo nel 1991, ma è abbastanza raro pure in Germania, dove solo l’Opera di Lipsia tiene stabilmente in repertorio tutto il Wagner giovanile. E proprio in collaborazione con Lipsia e il Festival di Bayreuth è stata coprodotta dal Verdi di Trieste questa sua nuova edizione, posta addirittura ad inaugurare la nuova stagione lirica della bella sala giuliana: iniziativa coraggiosa, e senz’altro lodevolissima.

E’ ben inteso che per far stare in piedi sulla scena lavori siffatti, dalle gambe un po’ fragili, contano due cose: una buona bacchetta che guidi interpreti capaci e briosi, ed una regia intelligente e leggera. In questo caso, non sono mancate né l’una, né l’altra. Encomiabile la direzione musicale di Oliver von Dohnányi, che crede in questa partitura e la dirige con comunicativo entusiasmo, ricchezza di contrasti, dinamiche adeguate, convincente filo narrativo, assecondato da un’orchestra – quella del Teatro Verdi - che lo scorta con piena convinzione. La compagnia, in gran parte già ben rodata nelle precedenti recite Oltr’Alpe, aveva i suoi punti di forza nel Friedrich del basso-baritono finlandese Tuomas Pursio, che fraseggia con eleganza e infonde accenti di veemente passionalità nella sua recitazione; nella intensa e calibrata linea vocale dell’Isabella del soprano americano Lydia Easley, nel luminoso Luzio del tenore berlinese Mark Adler, nell’umorale e sapida comicità del basso tedesco Reinhard Dorn (Brighella), nell’incisivo procedere del tenore georgiano Mikheil Sheshaberidze (Claudio), nella delicata sensibilità del soprano Anna Schoeck (Mariana), nel verve piccante di  Francesca Mirelli (Dorella). Ineccepibile la schiera di comprimari, che si disimpegna con stile e vede allineati Cristiano Olivieri (Antonio), Gianfranco Montresor (Angelo), Pietro Toscano (Danieli), Ponzio Pilato (Federico Lepre). Il coro del Verdi, preparato da Paolo Vero, si è destreggiato molto bene, anche scenicamente parlando.

Quanto alla regia del tedesco Aron Stiehl (ripresa qui da Philipp M. Krenn), è parsa soffusa di un’ironia leggera, sciolta e spiritosa nelle fresche invenzioni, e quindi sicuramente lodevole sotto ogni aspetto. Meno riuscite le scene di Jürgen Kirner: grandi ante mobili, che costruivano i vari spazi, due immense pareti erbose, una parete luminosa che in trasparenza suggeriva una croce per la scena del convento; ma veramente originale era solo la sala del tribunale, con torreggianti muri fatti di innumerevoli cassetti numerati, tanti come le inutili leggi promulgate da Friedrich. Di contro, parevano assai garbati, nella loro carnevalesca eccentricità, i costumi di  Sven Bindseil. Luci a cura di Claudio Schmid.

Visto il
al Verdi di Trieste (TS)