Lirica
DAS RHEINGOLD

Quando la musica si fa drammaturgia

Quando la musica si fa drammaturgia

Alla Fenice, per completare  il ciclo iniziato nel 2006 con Walküre e  proseguito con Siegfried e Götterdämmerung, viene ora proposto Rheingold. Per ragioni di budget (i previsti e poi revocati  tagli al Fus non hanno consentito di fare fronte agli onerosi costi di noleggio dell’allestimento) l’opera è stata eseguita in forma di concerto anziché nel fortunato, nonché molto atteso, spettacolo creato da Robert Carsen per l’Opera di Colonia di cui a Venezia sono state rappresentate con successo le tre giornate della tetralogia.
A priori  può sembrare una scelta opinabile per vari motivi:  per il gioco di rimandi ed intrecci musicali e narrativi il Ring andrebbe rappresentato in modo unitario e non diluito a distanza di anni; l’Oro del Reno è il Prologo in cui vengono presentati temi e personaggi che evolveranno nella tetralogia, illogico rappresentarlo alla fine; il Ring introspettivo e impietoso di Carsen è uno dei migliori esempi di regia degli ultimi anni, difficile sostituirne una parte con un concerto. Ma  l’esecuzione musicale è stata di tale intensità e varietà da risultare più che un ripiego una valida alternativa e le due ore e mezza di musica senza intervallo sono volate grazie a una narrazione avvincente ad alta tensione che ha messo in luce la particolare bellezza del Rheingold e la sua teatralità intrinseca più di tante edizioni sceniche.

Lothar Zagrosek, direttore da noi già apprezzato alla Fenice in occasione di “Intolleranza” e particolarmente attivo nel repertorio contemporaneo, ha sostituito all’ultimo l’indisposto Jeffrey Tate che aveva curato in precedenza la direzione musicale della tetralogia veneziana. La lettura di Zagrosek è estremamente lucida e antiretorica e, pur trattandosi di un’esecuzione concertante, ha un tratto marcatamente teatrale e fa scaturire con forte evidenza la struttura drammatica della partitura wagneriana. Più che focalizzare la direzione su cromatismi e Leitmotive, il direttore tedesco privilegia la visione d’insieme,  mettendo in rilievo l’architettura costruttiva di Wagner e sottolineando i passaggi fra le diverse situazioni drammatiche con un’esecuzione asciutta ed incisiva che rende la modernità tematica dell’Oro del Reno assolutamente bruciante.
Ottima la prova dell’Orchestra della Fenice dalle sonorità ben calibrate per non coprire le voci e ottenere il giusto effetto nei momenti di esplosione strumentale. Particolarmente in rilievo le” incudini “visionarie e inquietanti.

Un cast affiatato e sensibile ha saputo con la mimica, il gioco di sguardi e la capacità di accento restituire ogni verosimiglianza scenica incantando l’audience. Inoltre, ha positivamente sorpreso la perfetta dizione ed il canto sulla parola di un cast in larga misura anglosassone.
Merito di  un fraseggio espressivo e varietà d’accento, Greer Grimsley mette in luce l’ambiguità di Wotan, l’incapacità di decidere fra amore e potere, la sua vulnerabilità ed influenzabilità; la voce tuona profonda e possente, ma il registro superiore vorrebbe maggiore incisività. Un plauso a Richard Paul Fink che rende giustizia al ruolo di Alberich, sfruttandone tutte le possibilità espressive: grande sicurezza vocale e d’intonazione consentono di sostenere il declamato con il trasformismo di un mattatore; ironico e sarcastico nella voce e nelle movenze, diverte quando si accuccia a terra fattosi rospo, ma ci muove a compassione quando viene “ingiustamente” defraudato e la sua maledizione suona spaventosa e temibile. Convince pienamente il Loge analitico di Marlin Miller, la voce di  timbro chiaro non è particolarmente estesa, ma non importa: è il fraseggio duttile e arguto, agile e guizzante come il dio del fuoco, che rende con leggerezza, senza scivolare nella caricatura, l’irresistibile perfidia del personaggio. Ottimo anche  il Mime di Kurt Azesberger, aspro e tagliente, dal fraseggio mutevole. Dei due giganti il Fasolt di Gidon Saks trova sprazzi di dolcezza, Attila Jun è un  Fafner dalla voce profonda ed inquietante ed assesta in scena un colpo mortale al fratello. Corretti, ma un po’ anonimi, il Froh di Ladislav Elgr  dalla bella voce lirica e il Donner di Stephan Genz. Fasciata in un abito da sera rosso fuoco che ne esalta l’avvenenza, la Fricka mai petulante di Natascha Petrinsky coniuga veemenza a sensualità. Decisamente lirica la Freia di Nicola Beller Carbone, sensibile e disperatamente fragile. Ceri Williams è una Erda imperiosa, dal giusto peso vocale per una profetessa. Particolarmente affiatate e  sintoniche le tre figlie del Reno: la Wellgunde di Stefanie Iranyi, la Woglinde di Eva Otltivanyi e la Flossilde di Annette Jahns. 

Un pubblico attentissimo ha tributato alla fine meritati applausi entusiasti: auspicabile, se non doveroso, riproporre a breve il ciclo completo.

Visto il
al La Fenice di Venezia (VE)