DAVID è MORTO

La morte è un punto interrogativo a forma di cuore

La morte è un punto interrogativo a forma di cuore

David si è ammazzato. Il giorno dopo si è tolta la vita la sorella Iris, poi un musicista e i due genitori. Ma solo David conta, perché è il primo e diviene un simbolo, paragonabile a una piramide egizia da colmare di tributi. Tutti noi ricordiamo la prima grande sofferenza dell’infanzia, il primo gattino sepolto. Gli altri, venuti dopo, formano una catena indistinta.


Possiede forza deflagrante “David è morto” di Valeria Raimondi e Enrico Castellani, ovvero Babilonia Teatri: è la vis drammatica insita nel messaggio non univoco, leggibile in modi diversi, spesso diametralmente opposti ma tutti congrui, dal relativismo quasi pirandelliano. È un inno alla morte o alla vita? Alla sconfitta o alla speranza? Al dolore o all’amore? Niente e tutto questo. Lo spettacolo è un punto interrogativo, grande e luminoso quanto il cuore al neon che campeggia sullo sfondo.


Un pizzico dell’antologia di Spoon River e un richiamo a Giulietta e Romeo nel finale, quando l’amore, inespresso in vita, si protende verso l’alto per sublimarsi nella morte che lo rende eterno, parificando disperazione e gioia. Edgar Lee Masters e Shakespeare sono solo ombre, citate più per rispetto che non per aver costituito spunti sostanziali in un’opera la cui originalità è abbacinante.


Quotidianamente ci chiediamo se continuare nel tentativo di decriptare le idiosincrasie del mondo, o se abbandonarlo per trovare, nella morte, la nostra vera natura. I gesti dei suicidi sono eclatanti, nel palesare il disagio del vivere. David (dall’impetuosità adolescenziale di Filippo Quezel) si taglia le vene, in verticale e non in orizzontale perché coloro che non sono nemmeno capaci di uccidersi meritano solo disprezzo. Il sangue gli cola sul corpo e lo ricopre di rosso. La sorella Iris (Chiara Bersani, commovente nella dimensione tragica) aspira con una siringa la sua rossa linfa per poi spruzzarla sulle pareti di casa, fino al dissanguamento. Alex il musicista (dall’anima rock di Emiliano Brioschi) stramazza al suolo colpito dalle vibrazioni di una chitarra elettrica rossa: “Sono un kamikaze. Voglio le mie torri gemelle: costruitemele!”


Un j’accuse verso i genitori, intesi come un’unica entità, parlante all’unisono e all’unisono incruentemente impiccatasi. Il sangue è mezzo punitivo nei confronti del padre (cui Alessio Piazza ha conferito tormento introspettivo) che odia pervicacemente il colore rosso. Un papà che ha ecceduto nel correggere il figlio fino ad averlo cambiato e intende ora rendergli tardiva accettazione. La madre (cinta da lucida follia da Emanuela Villagrossi) macchinalmente ricompone al desco il cadavere del ragazzo e poi cucina per lui. Una donna che lo strazio non cancella nella sua essenza e che immagina di riporre nel freezer il cuore, accanto a un barattolo di sperma: “Avrò i capelli bianchi, ma mi rimarrà la forza di tornare a generare. Poi dormirò infiniti sonni”.  È l’ultimo grido prima che sulla selva di croci, anonimi anelli di una catena, scenda una fitta nevicata.


“Il giorno del Giudizio, Dio guarderà giù e vedrà un deserto disseminato di lapidi di marmo”, così inizierà la rinascita. La coltre immacolata, purificatrice e pacificatrice, ricopre persone e cose, ovatta progressivamente il grido assordante dei pensieri (musiche drammaturgicamente rilevanti di Cabeki), ingloba il grande cuore rosso che riposa al suolo al centro del cimitero. Forse nel camposanto, come in un campo arato e seminato, sotto la neve sta germogliando nuova vita.

Foto di Eleonora Cavallo

Visto il 28-11-2015
al Alcione di Verona (VR)