“Death in Venice” non era mai stata eseguita alla Scala, nei quasi quarant’anni successivi alla prima assoluta alla Fenice di Venezia del 1973. Lo spettacolo in cartellone è un nuovo allestimento della produzione della English National Opera e del Théatre Royal de la Monnaie di Brussels.
La regista Deborah Warner vanta una lunga frequentazione nella prosa, in particolare Shakespeare e Brecht. Il suo “Morte a Venezia” evita compiacimenti estetici, morbosi languori, estasi dei sensi, orientato non tanto verso il decadentismo quanto piuttosto verso un realismo che però ha sottesi i legami con la sensualità (stimolo alla creazione) e i condizionamenti dei sensi. La regista segue la narrazione in modo chiaro e funzionale, evitando di ricorrere a simbolismi e rimandi che potrebbero appesantire e sviare. Al centro il ruolo dell’immaginazione dell’artista e dell’equilibrio della mente, l’ispirazione e la sua perdita, che equivale alla morte fisica. E la redenzione. Una regia attenta a ogni gesto e movimento, misuratissima, elegante. Astratta (ma passionale) quel tanto che basta per non scivolare nella carnalità. Pochi oggetti, molto spazio vuoto, ombre più che luci, riflessi più che presenze, suggestioni più che rivelazioni. Per interiorizzare la vicenda, al punto che il protagonista pare solo, isolato, estraneo.
La scena di Tom Pye è suggestiva e funzionale, capace di evocare con pochi tocchi e cambi ogni situazione richiesta dal libretto. Cupo e claustrofobico lo spazio nero iniziale, privo di vie di uscita: sulle pareti sono proiettate le parole di Thomas Mann in corsivo, che ritornano in quasi tutti i monologhi di Aschenbach, parole silenziose, vuote, verrebbe da dire. Una rete pende dall’alto a preannunciare che il protagonista deciderà di partire in nave. L’apertura delle pareti nere del fondo rivela un bastimento sul cui camino si profilano i colori della bandiera italiana. Venezia è introdotta da acque luccicanti in bianco e nero proiettate sul velatino durante il preludio orchestrale, mentre in controluce si profilano i gondolieri. Bastano due pali a dare l’idea della laguna e tende leggerissime, svolazzanti per l’hotel al lido, affacciato sull’Adriatico. Un lungo remo mosso abilmente con la giusta posizionatura di cantanti e comparse ed ecco i gondolieri che solcano i rii. Per un tedesco l’aria lagunare è asfissiante e Aschenbach si fa aria con il cappello.
La spiaggia è uno spazio vuoto, di sola luce: una bandierina sopra una boa a indicare la presenza del mare. Profili veneziani, veri o immaginati, appaiono dal basso, sfocati, a fuoco, sfocati, appaiono e scompaiono salendo e scendendo sulla linea dell'orizzonte acquoso. La voce di Apollo è accompagnata da un fascio di luce che colpisce il soffitto della platea; il cantante è vestito sobriamente, di bianco (invece nero in seguito per Dioniso): semplice, efficace, convincente. Mobili ed arredi (profili di casotti da spiaggia, poltrone e tavolinetti di midollino, sdraio e valigie) sono spostati a vista da comparse, coristi e cantanti. Il cambio dopo l’intervallo è minimo ma totale: la scena rimane la stessa ma è orlata da veli neri, che si accampano come ragnatele sul palcoscenico. Gli stessi pali della laguna hanno la base tinta di nero. Un’atmosfera cupa, dolente, malata profondamente diversa da quella ariosa, estiva, marina del primo atto. Da qui in avanti gli stessi ambienti saranno pervasi da una luce altra che subito trasmette agli spettatori il senso della malattia che disfà tutto.
Eleganti e raffinati i costumi primo Novecento di Chloe Obolensky, giocati sui toni del nero e dell’avorio, particolarmente efficaci nelle scene di insieme, curatissimi nei dettagli (cappelli, ombrelli). Le coreografie di Kim Brandstrup si inseriscono perfettamente nella rappresentazione con una fusione di danza moderna, ginnastica artistica, movimenti sportivi rarefatti e rallentati che assomigliano più alle pose plastiche dei bassorilievi che all’agonismo giovanile.
Perfette le luci di Jean Kalman: da sole consentono il cambiamento tra primo e secondo atto, dalle trasparenze marine e madreperlacee della Venezia dell’innamoramento all’aria giallastra e carica di miasmi dei giorni del colera. Belle negli sfondi azzurro, avorio, arancio, nero: quattro colori essenziali che percorrono romanzo e musica. I giochi di controluce mescolano realtà e immaginazione, presente e passato, ricordo e desiderio.
La diffusione della notizia dell’epidemia di colera è su uno sfondo giallo carico, con una quinta nera che passa dietro come un’ombra luttuosa e minacciosa. Nel sogno Aschenbach è lungo a terra, una tenda passa e lo lambisce, introducendo Apollo e Dioniso. Molto significativi i due finali. Nel primo atto si vede l’immagine in movimento di Tadzio in bianco e nero proiettata sui casotti. Nel secondo Aschenbach e Tadzio cadono a terra nella stessa posizione, lungo una stessa diagonale, poi lo scrittore si trascina sopra la sdraio, il suo bastone rotola sul pavimento, il giovane si muove lentamente, silhouette inghiottita dal sole al tramonto. Tadzio, distante, inafferrabile indifferente a quanto è successo e sta succedendo. Una redenzione: Aschenbach abbandonato sulla sdraio come in croce, le braccia aperte, Tadzio ingoiato dal sole, dal cielo. “We must all lose what we think to enjoy the most”. Ed è subito sera. Ed è subito morte. A Venezia.
Edward Gardner ha diretto l’orchestra scaligera in modo assai efficace, creando una continua tensione e un suono sempre in grado di rendere il pathos dei diversi. Il direttore sottolinea senza mezzi termini le asperità della partitura, è allusivo senza scadere nel manierismo, mai scontato ma sempre vibrante.
John Graham-Hall e Peter Coleman-Wright, i due protagonisti, sfoggiano un perfetto accento inglese. Graham-Hall è un Gustav von Aschenbach di mezza età, il volto pallido e scavato, la figura magrissima a rivelare una tensione intellettuale che si traduce in sofferenza fisica; lo scrittore fuma di continuo, di continuo dà mance pescando le monete dalla tasca tintinnante dei pantaloni; la voce è adeguata al ruolo, suggestiva nei tanti assoli senza il sostegno degli strumenti; molto disinvolta la recitazione in un crescendo che culmina nel secondo atto, quando appare evidente che il colera non è un’epidemia ma una malattia (interiore, certo) che ha attaccato solo lui.
Coleman-Wright ha in modo convincente interpretato i principali ruoli di contorno con voce perfetta e identificazione attoriale, che gli hanno consentito di rendere al meglio i numerosi personaggi, soprattutto The Elderly Fop, The Hotel Manager, The Barber e The Voice of Dionysius (ma anche in The Traveller, The Old Gondolier, The Leader of the Players), tutti ben tipizzati. Iestyn Davies è una superba Voice of Apollo, voce controtenorile di bel colore e volume. Alberto Terribile è Tadzio; il giovanissimo ballerino ha pelle diafana, quasi traslucida, che rende appieno la figura del ragazzino polacco efebico (ma non femmineo), distaccato ed altero, esile e imberbe, che viene mitizzato da Aschenbach: un Tadzio distante, incarnazione di quello che abbiamo perso per sempre: “We must all lose what we think to enjoy the most”.
Adeguati tutti i numerosissimi ruoli di contorno. Coro ottimamente preparato da Bruno Casoni. Hanno partecipato gli allievi della scuola di ballo dell’Accademia del teatro alla Scala diretta da Frédéric Olivieri, perfetti.
Teatro pieno, spettatori per la maggior parte stranieri di tanti diversi paesi (una Babele di lingue all'intervallo nei foyer), vivo successo con applausi finali lunghissimi.