Venezia, teatro La Fenice, “Death in Venice” di Benjamin Britten
IL FASCINO MALINCONICO DI VENEZIA
“Morte a Venezia” di Thomas Mann è pervaso da un senso di morte incombente, un'aria di dissoluzione e di disgregazione che parte dai luoghi (una Venezia che, alle consuete immagini, cumula il colera), contamina la vita delle persone e i loro sentimenti, un'atmosfera di disfacimento satura di decadentismo. Lo sguardo non è realistico né voyeuristico, bensì pietistico: in fondo la vicenda ha al centro l'amore, la tragedia dell'amore, sempre terribile e sempre sacra.
La partitura di Britten, suo ultimo lavoro importante (rappresentato per la prima volta nel 1973), è eccessivamente intellettualistica, a cominciare dal libretto (affidato a Myfanwy Piper, moglie dello scenografo di fiducia del compositore), che riduce la vicenda a un elegante monologare su arte, bellezza, amor platonico e gioventù: si parla di morte, disfacimento, colera, ma invero non se ne sente la consistenza reale.
L'opera si snoda intorno a due poli drammaturgici, la figura dominante del protagonista, Gustav von Aschenbach e il “destino”, incarnato di volta in volta da personaggi diversi affidati allo stesso interprete. Tadzio e la sua famiglia, che nel romanzo non hanno parti nei dialoghi, sono ruoli sostenuti da ballerini-mimi, mentre il coro descrive le azioni di Tadzio.
Lo spettacolo firmato da Pizzi trova una sua convincente chiave di lettura (ha vinto il premio Abbiati). Il motivo conduttore e la prima scena sono ispirati a “L'isola dei morti” di Arnold Böcklin (d'altra parte tutto il poema di Mann è intriso di un simbolismo affine alla pittura tedesca): le pareti di roccia sono sostituite da libri che paiono rovine antiche ed accentuano l'ineluttabile immobilità che costituisce il fascino dell'originale. Il senso di morte e di presagio che i cipressi emanano permane fino alla fine: gli alberi snelli e scuri, come di ghisa, puntano verso l'alto, sporgendo anche dalle vedute veneziane, a ricordare l'inevitabilità del destino: “No choise for the living, no choise for the dead”.
Le eleganti scene ambientano la vicenda negli anni Trenta ed in luoghi di eleganza metafisica e rarefatta, con richiami veneziani: architettura fascista e vedute lagunari (il Canal Grande e San Marco), dove bagnanti-ginnasti si muovono con gesti precisi secondo disegni ispirati a un ordine geometrico e leggero come nei bassorilievi e nelle statue classiche (coreografie di Gheorghe Iancu). Sempre coi cipressi sullo sfondo, verso cui Tadzio si avvia alla fine, assumendo una plastica posa.
L'allestimento è permeato da una serenità misteriosa e metafisica che non è nel racconto (dominato dalla rappresentazione della crisi spirituale) ma che è invece nella musica, i cui temi fondamentali sono: l'infanzia come espressione di bellezza, interiore e fisica, e pertanto fonte di vertigine e perturbamento; il sottile confine tra il bene e il male, legati tra loro in modo inestricabile; la constatazione della finitezza e della sostanziale solitudine di ogni essere umano, le quali stimolano una pietas, una solidarietà umana estranea a Mann ma presente in Britten e nello spettacolo di Pizzi.
Ottima la direzione orchestrale di Bruno Bartoletti: la concertazione è sobria e accuratissima, il suono lucido e precisissimo, i volumi bilanciati, il risultato di una nitidezza rarefatta e leggermente brumosa. Una esecuzione di rara perfezione in cui si rifiuta la banalità di un senile amore omosessuale per cercare le radici di un cupio dissolvi entro cui si snoda un tormentoso e consapevole cammino alla ricerca di se stessi. Evidenziati nelle percussioni gli inflessi della musica balinese; esaltate le componenti eterofoniche (un gruppo suona la melodia e un altro, in contemporanea, la sua variazione); i diversi piani strutturali sono integrati in un tesissimo arco di potente e insieme lacerante drammaticità.
Intenso l'Aschenbach di Marlin Miller, che rivela un caparbio attaccamento alla giovinezza per distrarsi dall'età che avanza. Il ruolo è stato scritto per Peter Pears, compagno di Britten per tutta la vita, all'epoca di “Death in Venice” in età matura e quindi le escursioni verso il registro acuto sono caute, anche perchè il ruolo è lunghissimo. Marlin Miller si pone come un Gustav più giovane, di voce solida, forte e agile, con ampi slanci verso l'alto e brumose discese nel grave, efficaci soprattutto nei recitativi accompagnati dal pianoforte.
Scott Hendricks è l'avversario ed affronta in modo appropriato il tour de force dei sette ruoli; si appoggia maggiormente sulla tessitura bassa per il viaggiatore e il gondoliere, guadagnando nel primo anche le zone acute; è eroico e cerimonioso come direttore d'albergo, esplora il registro alto fino al falsetto per il bellimbusto e il capo dei suonatori ambulanti, vestito da Pierrot; nel breve ruolo di Dioniso è si presenta come direttore dell'hotel.
La partitura isola solo un altro cantante, la voce di Apollo, affidata al contraltista siriano Razek-François Bitar. Nei ruoli di contorno si sono segnalati Sabrina Vianello (la venditrice di fragole) e Luca Dall'Amico. Con loro Liesbeth Devos, Julie Mellor, Marco Voleri, Shi Yijie e William Corrò. I bravi ballerini sono, come nell'edizione al Maggio, Alessandro Riga (Tadzio) e Danilo Palmieri (Jaschiu), il primo pallido ed efebico a contrasto con la muscolatura più pronunciata e il colore brunito del secondo: la loro presenza ricorda la plasticità della statuaria antica ma anche due rondini che si rincorrono.
Teatro gremito, molti gli stranieri. Applausi e l'incanto di ritrovare fuori il fascino malinconico e decadente della scena.
Visto a Venezia, teatro La Fenice, il 29 giugno 2008
FRANCESCO RAPACCIONI
Visto il
al
La Fenice
di Venezia
(VE)