Delirio a due, scritto nel 1962, è sicuramente un testo emblematico della produzione di Ionesco. Emblematico, perché ripropone il senso claustrofobico dello spazio chiuso nel quale la realtà esterna riesce comunque a penetrare con violenza, il gioco crudele e teneramente barbaro della coppia che cede al sadismo linguistico divenuto possibilità/impossibilità di comunicazione, infine la circolarità dell’azione drammatica che si spegne esattamente lì da dov’era cominciata.
Ecco, Delirio a due è uno di quei testi che segnano la parabola del drammaturgo franco-romeno, in linea cronologica segue di soli pochi anni “Il rinoceronte”, al quale chi scrive crede si possa associare più che a qualunque altro testo di Ionesco.
Sandra Mangini, che lo ha messo in scena al Teatro Ca’ Foscari di Venezia in questi giorni, scrive nelle sue note che “Delirio a due è una domanda messa in scena sul grande tema del senso della vita e della condizione umana (…) un enigma da decifrare”.
E tale è apparsa la messa in scena proposta nell’ambito della rassegna “Correlazioni – stare al mondo” del teatro universitario veneziano, una messa in scena difficile da decifrare dove la quantità dei segni scenici finisce in alcuni punti per soffocare la forza delle parole e della loro assurda essenzialità. Come dire, l’assurda abbondanza dei segni (tiranti di scena in continuo movimento che trascinano elementi di scenografia o bombaroli black bloc che lanciano in scena esplosivi impacchettati come sontuosi regali) ha paradossalmente impoverito l’assurdità, e la durezza ad essa associata, del discorso verbale.
Cominciamo da un paio di domande.
Perché Lui viene interpretato da una donna? Perché il delirio di una coppia diventa il delirio di due maschere? Tali appaiono infatti le due giovani attrici in scena, Arianna Addonizio e Meredith Airò Farulla, tanto giovani da non riuscire a sostenere la complessa maturità dei due personaggi affidati loro, cedendo spesso a movenze clownesche e a toni di battuta inappropriati. Lui è in realtà una lei con bombetta e baffetti alla Chaplin, panzone da cuscinone sotto il gilet e voce camuffata che sa di farsa maldestra, Lei è una lei/bambina dalla voce stridula e chiassosa che nulla concede a modulazioni e intenzioni altre. Così accade che la lunga e paranoica tirata iniziale, quasi un frammento sacro del teatro dell’assurdo, secondo forse solo agli scambi tra maestro e allieva ne “La Lezione”, quella insomma se la chiocciola, la lumaca e la tartaruga siano da considerarsi come appartenenti alla stessa specie animale, diventi una lunga e insopportabile gag che non catapulta affatto sull’orlo dell’abisso, sul limite di quel vuoto esistenziale in cui Ionesco voleva che avessero vita i suoi personaggi e con essi l’uomo tutto della contemporaneità.
Forse è proprio questo che è mancato: l’abisso e il vuoto ai margini dei quali vivere distrattamente e con la pretesa di potersi salvare sempre e in ogni caso. Al contrario sulla scena c’è di tutto, il pieno caotico al posto del vuoto angosciante, il frastuono delle voci e degli spari esterni non giungono mai spettrali, ma quasi si perdono tra l’affannosa ricerca di materassi da spostare, tiranti da agganciare a sedie che salgono e scendono, un movimento continuo insomma che tradisce l’agghiacciante immobilità di chi non riesce a fare i conti con la realtà al punto da non osare metterci piede fino a sentirsi in pace con la propria coscienza chiudendo finestre e sbarrando porte.
La casa in cui si muovono il Lui e la Lei di “Delirio a due” ha le fattezze di un bunker più che di uno spazio domestico e questo appare ben focalizzato dalla messa in scena: da questo punto di vista infatti il caos dei segni e le continue incursioni degli uomini in nero, manigoldi e manganellatori di un qualsiasi regime della nostra contemporaneità, restituiscono l’immagine di un assalto alla diligenza esistenziale, di una messa sotto scacco della vita e della sua perdita proprio nel momento in cui ci si illude di metterla sotto chiave.
La vita, sembra suggerirci la Mangini nella sua messa in scena, ci sfugge di mano proprio nel momento in cui precludiamo ad essa ogni via di fuga.
E questa considerazione, al momento degli applausi finali, ci riconcilia con lo spirito di Ionesco.