Roma, teatro Argentina, “Delitto e castigo” da Fedor Dostoevskij
I LABIRINTI DELLA MENTE, I LABIRINTI NELLA VITA
Impresa ardua è ridurre un romanzo corposo a drammaturgia teatrale, un labirinto di pagine in un pugno di parole, ricostruire un’atmosfera su un palcoscenico. A Glauco Mauri era riuscito benissimo con il commovente Oblomov da Goncarov, gli riesce anche con Delitto e castigo da Dostoevskij, sebbene il risultato questa volta non sia così pieno, così compiuto.
La splendida scenografia di Alessandro Camera da sola rende il significato del libro e dello spettacolo: sul lucido pavimento sono tracciate le linee di un labirinto, elementi scenici sono sospesi sopra il palcoscenico (in modo da essere specchio di quelle linee misteriose e geometriche) e scendono dall’alto a formare angoli e stanze da sfondo all’azione, combaciando con quelle linee. A volte si fermano a diverse altezze, svelano e nascondono, creano diverse e nuove prospettive, rivelano realtà concrete oppure oniriche, che condizionano l’agire del protagonista: “In che sogno maledetto mi sto gettando?”
Insomma un labirinto, un labirinto che poi è la mente umana, un labirinto che tendiamo a trasferire nella vita, rendendola anch’essa labirinto da cui è sempre più difficile uscire, se non impossibile. “Avete mai visto una farfalla girare intorno a una candela?”
“Tutti sono venuti.. aspettavo solo voi”: le parole sono scritte a caratteri enormi, una sorta di sovratitoli che scandiscono il procedere del romanzo, cioè il compimento del delitto ed il maturare del castigo, “il resoconto psicologico di un delitto”, come scrisse l’autore.
“Sono un infelice”. Sono un infelice, ripetuto più volte da Raskolnikov è forse la chiave di tutto, da cui scaturisce il delirio di onnipotenza, la tranquillità nell’accettare di eliminare dalla vita alcuni “ostacoli” che sembrano sbarrare il cammino o semplicemente renderlo più faticoso, alla fine quello che fa il protagonista, mettendosi al di sopra delle leggi per essere il più grande di tutti. Ma dovrà fare i conti con la realtà e soprattutto con la giustizia: prima con quella della propria anima, poi con quella degli uomini, infine forse con quella divina.
Ma invero Raskolnikov uccide solo per uccidere se stesso. “L’uomo è un mistero difficile da comprendere”, ma forse egli è semplicemente un sognatore, magari esasperato dai libri che legge e dalla vita stessa che vive, decidendo a un certo punto di scavalcare l’ostacolo. E invece è come se si butta da una torre: accettare la sofferenza è il castigo più nobile per ogni sofferenza.
Roberto Sturno è un lucido e tormentato Raskolnikov, perfettamente credibile in una parte ardua e nel rendere tangibile con la voce e con la mimica facciale il tormento profondo dell’intimo. Glauco Mauri si è ritagliato la piccola e significativa parte del giudice Petrovic e percorre la scena a passetti piccoli e veloci, lo stesso atteggiamento con cui il suo personaggio attraversa la vita. L’inquieto Petrovic, pieno di misteri, con la sua presenza spinge Raskolnikov a scoprire quelle verità che ha dentro di sé, fino all’accettare l’insensatezza del suo delitto (e l’insensatezza del suo delitto è la stessa dell’uomo di oggi, basta guardarsi intorno). Silvia Ajelli è una dubbiosa e generosa Sonja, Mino Manni bravissimo nel fare da spalla al protagonista con il suo Rasumichin. Con loro Simone Pieroni è Kock e Odoardo Trasmodi Ilja Petrovic. Le musiche di Arturo Annecchino contribuiscono a creare l’atmosfera asfittica e senza uscita, mentre i costumi di Simona Morresi evocano vagamente l’Ottocento.
FRANCESCO RAPACCIONI
Visto a Roma, teatro Argentina, il 24 novembre 2005.
Visto il
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Ambasciatori
di Catania
(CT)