DER FLIEGENDE HOLLäNDER

IL MARE IN UNA STANZA

IL MARE IN UNA STANZA

Nell’anno di Wagner e Verdi il Regio di Torino inaugura la stagione con l’Olandese volante, la più “italiana” delle opere di Wagner, proponendo l’allestimento ideato da Willy Decker per l’Opera di Parigi nell’efficace ripresa curata da Stefan Heinrichs.
Nessuna nave, nessun mare in tempesta: nell’interpretazione introspettiva e psicoanalitica del regista tedesco tutto avviene nella mente di Senta che, per fuggire i limiti di un mondo provinciale e piccolo borghese, si rifugia in modo autistico nel sogno.

Wolfgang Gussmann crea un ambiente chiuso, una stanza dalle pareti di un grigio chiaro molto scandinavo (illuminato dalle luci livide quanto sapienti di Hans Töstede) che ci riconducono ad atmosfere ibseniane. Sulla destra un’immensa porta bianca si apre sull’oceano di cui intravediamo di sbieco il turchese delle onde o il rosso delle vele del vascello fantasma, mentre sulla parete di  sinistra  è appesa una grande marina ottocentesca che raffigura un vascello bianco fra i flutti. La scena dal pavimento inclinato è vuota, sta al coro portare dentro di volta in volta le gomene delle navi ormeggiate in una no man’s land piuttosto che sedie e tavoli di un interno borghese. Lo spazio vuoto e sbieco non è altro che la mente della fanciulla in preda a un’unica ossessione. Senta, con il ritratto dell’Olandese stretto tra le mani, si confonde in dissolvenza con il quadro alla parete quasi fosse un fantasma, le strofe della ballata scandiscono un rituale quasi spiritico con le fanciulle sedute in cerchio a cucire una vela con gli occhi chiusi e, alla fine nel momento dell’agnizione, Senta, in preda all’esaltazione, ripete a memoria con il movimento delle labbra le parole dell’Olandese.
Per Decker non c’è nessuna redenzione, Senta si uccide con il pugnale di Erik, tutti abbandonano la stanza ad eccezione di una fanciulla che raccoglie il ritratto da terra e, divenuta una replicante di Senta, fissa ossessivamente la marina: la leggenda dell’Olandese rivivrà in altri incubi.

Per poter funzionare lo spettacolo richiede un cast omogeneo e affiatato, oltre che capace di forte presa emotiva, adatto a tradurre sulla scena le metafore del regista.
Mark Doss ha forte presenza e, vestito di scuro dai movimenti lenti e dolenti,  sottolinea la condizione d’impossibilità  e lacerazione del protagonista, il suo essere “altro” rispetto al mondo piccolo borghese, risultando speculare a Senta di cui stringe ossessivamente tra le mani il ritratto; la voce ben emessa dalla linea curata rifulge nei momenti più  lirici, mentre le pagine più eroiche e demoniache vorrebbero maggiore incisività e pienezza vocale.
Adrianne Pieczonka ha debuttato Senta un paio d’anni fa a Parigi (sempre nella produzione di Decker), ruolo che ha poi approfondito e maturato come dimostra il recente trionfo a Bayreuth; la cantante canadese è una Senta ideale per la voce ampia e perfettamente sostenuta, gli acuti incisivi e drammatici, la rotondità della linea che rende la ballata incantatoria; inoltre è scenicamente perfetta per il personaggio riservato e  “fuori luogo” voluto dalla regia.
Ci è piaciuto Steven Humes per l’eleganza del canto, la cura di fraseggio e dizione, un Daland  dalla voce chiara e meno caricaturale del solito, particolarmente adatto al contesto biedermeier. Meno convincente l’Erik di Stephen Gould che, nonostante una voce importante (ma povera di autentico lirismo),  rimane solo alla superficie del personaggio; scenicamente è meno integrato degli altri e rischia di scivolare nella caricatura. Corretta la Mary di Claudia Nicole Bandera. Un po’ sopra le righe il timoniere di Vincente Ombuena, ma il suo canto ha giusta pregnanza lirica.

Gianandrea Noseda rilegge la partitura wagneriana alla luce di una sensibilità italiana e ne esalta la componente cantabile con perfetto dosaggio dei piani sonori, per cui la componente drammatica e quella brillante permangono in equilibrio. Alle prese con il punto di partenza del percorso wagneriano, Noseda guarda indietro e sottolinea il rapporto di continuità con il classicismo di  Beethoven  e  la comicità leggera di Weber.
Diversamente da certa tradizione interpretativa “romantica”, Noseda non indulge nello schianto tellurico,  ma, con logica chiarezza e in sintonia con una regia asciutta, imprime progressiva tensione drammatica con un giro di vite che inchioda. Fondamentale l’avere proposto la versione dell’opera senza interruzioni.
Un plauso all’orchestra del Regio per precisione e tenuta e soprattutto al coro (in questa occasione al coro del Regio si è affiancato il coro Maghini) ottimamente preparato da Claudio Fenoglio. Come in altri allestimenti (pensiamo al Peter Grimes visto a Torino) Decker rende il coro protagonista ed è l’incisività del suo movimento scenico che risulta fondamentale per sottolineare gli snodi drammatici, connotare l’ambiente e la piccola comunità norvegese, illuminandoli di volta in volta  di una luce ironica, brutale, leggera, oppressiva.

Un pubblico entusiasta ha tributato a tutti gli interpreti calorosi applausi con meritate ovazioni  alla protagonista  e al  direttore.

Visto il
al Regio di Torino (TO)