Secondo degli allestimenti wagneriani in programma alla Scala per il bicentenario, dopo il Lohengrin che ha inaugurato la stagione, Der fliegende Holländer è stato coprodotto con i teatri di Oslo e Zurigo il cui nuovo direttore è il regista Andreas Homoki.
Wolfgang Gussmann ha inventato un ufficio jugendstil di alte pareti con boiserie in basso e stoffa da parati a righe tono su tono beige che isolano al centro un ottagono di legno scuro. Confermano il luogo e il tempo i costumi dello stesso Gussmann, declinati sui toni del grigio con un'uniformità che assimila uomini e donne, tutti uguali in gilet, camicia bianca con mezzemaniche, cravattino nero, scarpe stringate, pantaloni con la riga o gonne a metà polpaccio e gli occhialini che insistono sullo stereotipo del ragioniere e della dattilografa, in questo caso dipendenti di una compagnia di navigazione. Alle pareti laterali due marine in burrasca, in quella centrale una mappa dell'Africa australe con evidenziati i vari domini coloniali europei. Giuste le luci di Franck Evin. La regia è curata ed efficace dentro una bella ambientazione ma è completamente estranea a musica e libretto, seppur l'idea sia pregnante in sé.
Andreas Homoki elimina ogni riferimento visivo al mare e alla navigazione, forzando l'ipotesi di una tempesta finanziaria che travolge l'ufficio di Daland in cui l'apparire dell'Olandese, che possiede e offre grandi tesori per fermare il suo viaggio inesausto, appare come la salvezza economica, al punto che il borghese imprenditore non esita a sacrificare la figlia. Con i proventi dei gioielli dell'Olandese Daland riesce a espandere i suoi traffici marittimi in tutta l'Africa, moltiplicando i punti di approdo sul continente, come evidenziato dalla nuova mappa appesa fra il tripudio dei ragionieri. Ma ormai l'epoca coloniale è insostenibile, la mappa si incendia e il domestico di colore, vessato dai presenti, si trasforma in guerriero tribale e uccide con arco e frecce alcuni degli impiegati. Impiegati che, in alcuni momenti, si muovono e barcollano come a seguire lo sciabordio delle onde. Ma non è un tempo reale quello che si sta vivendo: le lancette dell'orologio vorticano incessantemente.
Senta avverte dentro di sé il richiamo irresistibile del mare in burrasca e fissa quel dipinto alla parete come ipnotizzata. In quel mondo rigido e borghese, tutto proteso al guadagno, l'apparire dell'Olandese che si presenta come un “selvaggio” privo di sovrastrutture, le appare come una finestra aperta su un nuovo mondo, libero e pieno di vero sentimento, non mediato dall'opportunismo sociale. Per questo è inevitabile il contrasto con Erik, cacciatore con tanto di fucile che non capisce quanto il reale quotidiano sia asfittico per Senta, che si è già spogliata degli abiti restando in sottoveste.
Gli eventi purtroppo non sono programmabili razionalmente, l'Olandese riparte e Senta si spara un colpo in faccia con il fucile di Erik. Non c'è speranza né redenzione per gli innamorati infelici: il sipario si chiude sul suo corpo a terra, immoto come quel mare nel dipinto alla parete.
La concertazione di Hartmut Haenchen è tumultuosa e incendiaria, soprattutto nell'impressionante ouverture di suoni impetuosi come quel mare del Nord in tempesta che aveva ispirato Wagner e da cui invece Homoki si è distanziato in modo siderale. Il direttore mantiene tempi serrati e materializza tempeste e fantasmi con irruenza controllata ma anche ottiene dolcezza di innamoramento e conforto nell'approdo, affettuoso o domestico. Haenken propone un dettagliato studio della partitura nel programma di sala: sicuramente avrebbe giovato di più l'esecuzione in un unico atto, come anche la regia lascia intendere (prima e dopo l'intervallo Senta è incantata davanti al quadro del mare in burrasca, rendendo evitabile la pausa).
Bryn Terfel ha convinto per le sfaccettature del canto più che per l'allure, restando poco carismatico nel rendere l'inquietante viandante; il baritono ricorda il protagonista maori di “Lezioni di piano” (film di Jane Campion interpretato da Harvey Keitel) per i tatuaggi su volto, braccia e dita, l'incedere non aggraziato, il cappottone di pelliccia sull'abito borghese, una commistione di cittadino/selvaggio che si oppone al Daland imprenditore di Ain Anger, vocalmente appropriato. Klaus Florian Vogt presta il suo timbro cristallino a Erik: il racconto del sogno è di irripetibile dolcezza e di emozionante trasparenza (questo è l'unico momento in cui si vede il vascello fantasma che solca le acque perigliose incorniciate alla parete). La Senta di Anja Kampe ha colore non particolarmente seducente ma il canto è saldo e il ruolo dominato soprattutto nel fraseggio e nella parte attoriale, fondamentale in spettacoli di regia come questo. Rosalind Plowright è una severissima Mary, che dirige con piglio dittatoriale le tessitrici qui diventate dattilografe e il “ronza, romba rotellina” non si riferisce agli arcolai ma alle macchine per scrivere. Dominik Wortig è il Timoniere dall'acuto forzato. Ottimo il coro preparato da Bruno Casoni.
Pubblico numeroso, applausi contenuti. L'opera non andava in scena a Milano dal 2004 con il bell'allestimento dell'Olandese volante di Yannis Kokkos, che sarà in scena a breve al Comunale di Bologna e poi al San Carlo di Napoli.