Genova, teatro Carlo Felice, “Der Rosenkavalier” di Richard Strauss
UN MORBIDO E AUTUNNALE UNIVERSO MUSICALE
Una sera, a Berlino, in casa del poeta Richard Dehmel, Strauss conosce Hugo von Hofmannsthal che diviene il suo librettista ideale, esempio supremo della collaborazione tra due artisti (che però non diviene mai vera amicizia). Il testo letterario di Hofmannsthal ha una sua autonoma validità poetica; infatti il libretto del Rosenkavalier (idealmente impostato sulle Nozze di Figaro ma in puro dialetto viennese) è un capolavoro, a cui Strauss fornisce note perfettamente adeguate, ispirate a un settecentismo limpidamente tonale e immerse in un morbido e autunnale universo armonico, uno di quei casi in cui “musica e poesia convergono e si rivestono perfettamente l'una dell'altra, si moltiplicano e si rafforzano”, come ha scritto Quirino Principe.
Strauss dichiara apertamente la sua intenzione di un'opera “mozartiana” lontana dalla tragica e fastosa sensualità di Salome ed Elektra, un'opera che attinga alle fonti di un mitico Settecento “viennese” aggraziato e amoroso, sospeso tra gaiezza e malinconia. Ma né Hofmannsthal né Strauss potevano limitarsi a un ritorno puro e semplice a una forma operistica del passato: la cultura è profondamente diversa e inattese complessità pervadono il Cavaliere. E i celebri valzer, che qualcuno ha giudicato anacronistici, hanno impresso il sigillo inconfondibilmente viennese al Rosenkavalier, un'opera di estreme bellezza e malinconia.
L'allestimento di Pier Luigi Pizzi (debutto al Carlo Felice nel 1996 in coproduzione con il teatro Narodowy di Varsavia), impianta la vicenda in un Settecento soffuso ed ovattato, come all'interno di una scatola preziosa: l'abbondanza di teli di raso color avorio, l'uso delle tonalità del bianco e dell'oro per gli stucchi e le sfarzose decorazioni, i costumi, tutto contribuisce alla sensazione, quasi tattile, di morbidezza, associata ad un tramonto dei sentimenti e della società. L'originario pavimento di moquette è stato sostituito in questa ripresa da uno lucente nero, forse più attuale ma che diminuisce l'effetto “scatola” dell'impianto scenotecnico. Il quale, girando come un carillon e grazie ad un uso sapiente delle luci, mostra vari ambienti e imprime ulteriore moto all'azione. La regia, ripresa da Massimo Gasparon, coglie gli spunti divertenti del testo ma spesso si limita alle indicazioni librettistiche, un tempo fonte di contrasto tra Hofmannsthal e Strauss, il quale per errore aveva musicato anche le didascalie, credendole parte del libretto.
Sempre efficace, dopo la falsa conclusione, la postconclusione con il paggio (vistosamente truccato, perchè non si è scelto qualcuno di colore?!) che rientra in scena a cercare il fazzoletto della Marescialla.
Viene ritratto un mondo di parrucconi incipriati, chiuso, ovattato, che appare a prima vista sereno e godereccio ma che tale non è: i nobili squattrinati debbono sposare i ricchi borghesi; per trovare un lavoro ci si deve esporre a rituali offerte; l'animo che cerca l'amore è destinato alla solitudine.
All'inizio il sipario di raso lucido color avorio si solleva appena, a mostrare solo il dettaglio del grande letto a baldacchino, anch'esso di soffici colori chiari, come se il pubblico sbirciasse dal buco della serratura una scena privata nell'alcova della Marescialla. La pedana circolare ruota per ricreare i vari ambienti dell'appartamento, il grande letto, gli armadi di stucchi bianchi e dorature fastose, il tavolo per la colazione, l'anticamera coi grandi portoni sormontati da medaglioni tondi.
Il secondo atto ha luogo in una esedra semicircolare aperta da tre serliane, dove sono prevalenti bianco, oro e specchi, con il gioco dei tendaggi avorio che salgono e scendono in ricche volute e arricciamenti per chiudere lo sfondo o rivelare la totalità del nero. Il terzo atto ha pochi arredi, la scena è spalancata sul nulla; molto teatrale il quadro della camera con gli spiriti in cui tutti gli effetti sono realizzati a vista dalle comparse.
In un cast di buon livello ha primeggiato Solveig Kringelborn, una Marescialla di dignitosa malinconia. Il personaggio è stato a torto considerato un'evoluzione della contessa delle Nozze, quando invece è profondamente novecentesca nell'inquietudine, nell'insoddisfazione, nella ricerca di un affetto impossibile a trovarsi. Nel primo atto è colta nella sua intimità, la candida veste da notte o la sontuosa vestaglia cremisi; nel terzo atto indossa un bell'abito di broccato bianco coi pizzi neri su collo e polsi e una leggiadra piuma bianca sul cappellino nero, come in un dipinto di Pietro Longhi, altro interprete dell'autunnalità per eccellenza, quella veneziana. Vocalità perfetta per il ruolo e fisicamente molto bella, la Kringelborn ha fornito un'interpretazione struggente, assommando la malinconia e il senso del trascorrere inesorabile del tempo che pervadono tutta l'opera: il suo dolore è vissuto in maniera elegante, con classe suprema. Nella frase iniziale di Octavian a lei rivolta “Wie du warst! Wie du bist!” (“com'eri, come sei”) c'è tutto il senso malinconico dell'opera, che caratterizza due momenti splendidi affidati alla Kringelborn, la chiusura del primo atto ed il terzetto finale. In quest'ultimo Strauss lascia ai margini le voci virili, creando un manifesto di poetica musicale operistica e ritraendo il tempo, il suo scorrere ossessivo e la l'atemporalità, incantevolmente espressa dal valzer.
Simile, per certi versi, al Cherubino delle Nozze è Octavian, una Kristine Jepson dalla voce potente, piena nel registro centrale, facile all'acuto, corposa e sensuale nel grave, ciò che le ha permesso di interpretare al meglio i “gravi” di Strauss con la voce che scende nella scala cromatica. La Jepson è attorialmente convincente nel dividersi tra i ruoli di Octavian e Mariandel, la metafinzione per cui l'uomo in scena (interpretato da una donna) è costretto dalle circostanze a travestirsi da donna in un gioco di rimbalzo tra finzione e realtà che non ha eguali nel teatro d'opera.
Günter Missenhardt è un Barone Ochs di lunga esperienza teatrale e di grande classe. Nel primo atto sembra privilegiare tempi più lenti, poi dal secondo l'accordo con gli strumentisti è perfetto e la voce non ha problemi a bucare la pur poderosa massa orchestrale.
Enrico Marrucci è un Faninal in ingombrante mise bluette; Cesare Ruta è un venditore di animali che reca con sé due pappagallini ed uno splendido, nobilissimo levriero. Olivier Ringelhan è Valzacchi, vestito del viola luminoso caratteristico di Pizzi; Valzacchi e la spumeggiante Annina (Annette Jahns) ricordano nella tipologia caratteriale il gatto e la volpe di collodiana memoria. Il cantante italiano (Ricardo Bernal) incanta i valletti e Valzacchi cantando (in italiano) sopra un alto piedistallo.
Deludente la Sophie di Patrizia Ciofi: la voce è priva di corposità, svetta nell'acuto ma scompare nel centrale e nel grave.
Con loro Ornella Vecchiarelli (Marianne), Ethan Herschenfeld (notaio e commissario di polizia), Enzo Peroni (maggiordomo della Marescialla e oste), Barbara Bargnesi, Margherita Tomasi e Nadia Petrenko (le tre orfane), Miriam Artico (una modista), Amedeo Moretti, Paolo Maria Orecchia, Stefano Consolini, Maurizio Leoni, Dario Giorgelè (lacchè e camerieri), Roberto Conti (il portiere) e il mimo Agostino Taboga.
Felici coincidenze per il direttore Fabio Luisi, genovese che da qualche settimana ha assunto il prestigioso incarico di direttore principale a Dresda, città dove Rosenkavalier debuttò nel 1911. Il Maestro, che con questa partitura ha un rapporto privilegiato, ottiene un suono leggero e con i giusti tempi, tra la velocità mozartiana e l'inquietudine novecentesca, filtrata da una malinconia nostalgica propria del neoclassicismo ma rivisitata con animo e sensibilità attualissimi. Luisi è vistosamente padrone della partitura, sottolinea i momenti brillanti e quelli lirici sempre con eleganza e spigliatezza. L'orchestra lo segue come può, fa il massimo possibile ma non riesce a trasmettere la vaporosità della partitura. Marginale l'apporto del coro, preparato da Ciro Visco.
Pubblico attento e partecipe.
Visto a Genova, teatro Carlo Felice, il 9 febbraio 2008
FRANCESCO RAPACCIONI
Visto il
al
Carlo Felice
di Genova
(GE)