Alexandre Roccoli omaggia “un’Italia con un corpo aperto”. Nelle giornate conclusive del 29 e 30 luglio il Napoli Teatro Festival accoglie Di Grazia, ultimo lavoro del coreografo francese in collaborazione con la danzatrice, cantante e musicista di origine calabrese Roberta Lidia De Stefano, unica interprete in scena.
Lo spettacolo è un lento susseguirsi di immagini reali e virtuali che vogliono evocare un tempo lontano. La sonorità che le accompagna ha la stessa funzione del materiale visivo. È forte l’interazione con la multimedialità e la tecnologia che da mezzo di comunicazione diviene quasi preponderante rispetto alla fisicità. Le azioni della danzatrice subentrano, infatti, successivamente alla proiezione di Mama Schiavona, un film sonoro che racconta il culto della Madonna dei Femminielli di Montevergine.
Il corpo di Di Stefano viene sovrapposto alle immagini che scorrono sul grande proiettore, un sipario digitale dietro al quale si erge un antico altare. La danzatrice compare alle spalle della platea di spettatori, la costeggia per raggiungere il palcoscenico mentre il pubblico, rapito dalla proiezione, si accorge gradualmente della sua presenza. Così cambia l’oggetto della visione: la semplice proiezione di un filmato si trasforma improvvisamente nella dissociazione del corpo e nella sua dispersione nel virtuale.
Religiosità, donne e meridione
Il progetto si colloca su una linea artistica che muove da un profondo interesse (a tratti autobiografico) di Roccoli per il fenomeno del tarantismo e delle donne “tarantolate”, per i riti dell’Italia Meridionale, le cerimonie religiose, i canti e i dialetti. La traccia comune del dispositivo scenico è, quindi, l’Italia del Sud, il conflitto tra un mondo antico e digitale, ma anche tra il maschile e il femminile.
I movimenti della danzatrice sono semplici, ripetitivi; non sono esemplificativi di un genere ma restano asessuati. Piuttosto incarnano un rito. Sono la trasposizione di un’idea di catarsi, di un’estasi divina. Il tutto reso da una cifra teatrale plastica, fatta di visioni, completamente sciolta dal testo e legata, piuttosto, al suono e all'immagine che, talvolta, ricorda le percezioni integraliste del teatro di Romeo Castellucci. La performance consiste sostanzialmente in un percorso fisico, spirituale, musicale e catartico.
È un’ascesa ad un monte immaginario. È il cammino di una donna dai passi lenti e pesanti (tanto da legarsi alle caviglie grosse catene da trascinare). Coperta da una tunica bianca, la donna suona la zampogna, antico strumento che rimanda a immagini bucoliche e l’accompagna fin sul palcoscenico. Qui, trapassa le proiezioni sul proscenio, si libera delle vesti e si dedica a preparare un’offerta sull'altare oltre il velo del proiettore intonando antichi canti religiosi. La voce plastica dell’interprete, attraverso un sintetizzatore Korg, viene modulata, lavorando sul respiro e sulla voce, in un registro più futuristico.
La nudità diventa metafora del sacrificio religioso ma anche di una sessualità liberata dopo una lunga repressione. Il rito ricorda l’adorazione di Cibele, dea proveniente dall'Asia Minore, in onore del quale i sacerdoti indossavano abiti femminili e si eviravano ritualmente per unirsi alla sua essenza divina suonando tamburi e cantando in una sorta di estasi orgiastica. La donna, così come la divinità, incarna il doppio, l’alterità, l’indefinito. Emergono ferite del passato, l’assenza di una madre divina che tutto può salvare, perdonare, accogliere.
Il canto, la voce che incontra lo spazio e l’azione presente al suo interno, è un canto di gioia, un lamento, un grido di dolore e d’amore, una richiesta di grazia. È l’evoluzione attraverso l’immagine e il suono di antiche litanie appartenenti ad un Sud di un’Italia, oggi forse invisibile, ma che ancora esiste.