Strana la storia del Ratto dal serraglio all'Opera di Roma: sei edizioni, tutte in trent'anni, tra il 1941 e il 1973; prima e dopo il nulla. Graham Vick accoglie la sfida di riportarlo al Costanzi e convince tutti con una regia essenziale ed intelligente, uno spettacolo raffinato e significativo che è inno illuministico alla tolleranza (religiosa, sociale e politica) e alla razionalità nella vita sentimentale. La scena chiave di questa regia ci è parsa quella che introduce Konstanze e Selim, seduti ai lati di un lunghissimo tavolo, lontani. Selim insiste nel chiederle, nel volere una risposta, convinto che il suo grande amore possa bastare per due. Konstanze non risponde, resta in silenzio, silenzi lunghissimi che in platea paiono interminabili, sottolineati dal rumore delle posate nei piatti. Selim alza la voce e Konstanze dice che il suo cuore è impegnato, non gli lascia neppure uno spiraglio. E Selim comprende, non la costringe. Attende: in silenzio si contrappongono, gli occhi di uno in quelli dell'altra, senza una parola, senza una nota. È l'introduzione del tema che poi prevarrà nel finale: la comprensione e quindi la tolleranza che ne discende.
Peso rilevante hanno le scene e i costumi di Richard Hudson. Il sipario è azzurro a larghe pennellate, enormi, sulle quali si stagliano due linee rette arancioni che incontrandosi formano una specie di V, come un uccello stilizzato. Il palcoscenico è occupato da un cubo: su due lati un cielo magrittiano, celeste con ciuffi di nuvole bianche leggere leggere; su due lati (alternati) un cielo notturno, nero con puntini luminosi come stelle. Su ogni lato tre porte, quasi invisibili, che si aprono verso l'esterno; l'interno è sfarzosamente colorato a disegni floreali, come le piastrelle di certi luoghi dell'Iran, stupefacenti. I protagonisti entrano ed escono come in un labirinto, utilizzano gli spigoli per nascondersi ed incontrarsi.
Due palmette nane stilizzate arancioni sono in un angolo lontano; due nastri tesi (uno davanti, uno dietro il cubo) prima arancioni e poi azzurri sono trattenuti sul pavimento e formano anch'essi due V che danno una strana prospettiva al palco. Sfarzosi e di grande classe i costumi che rimandano a un settecento privo di denotazione geografica per gli inglesi, chiaramente orientaleggiante per Osmin e Selim, il quale ultimo indossa tre abiti completi di turbanti e mantelli di particolare effetto. Le luci completano la bella messa in scena.
La scena parrebbe fissa ed essenziale, vista la sola presenza del cubo grande come una casetta; in realtà non è così, perchè esso viene spesso fatto ruotare, cambiando angolazione; nel secondo atto manca un lato e diventa un interno di palazzo con lampadario fuori misura; nel terzo atto è rimasta una piccolissima pedana appena inclinata, ma nelle intenzioni è sempre il cubo, tanto che le ragazze di lì escono per fuggire, tramite una finestra che si apre come una botola e una scala a pioli che si percorre come una passerella. Un segno è in un quadrato (o un cubo bidimensionale) che sta volando via con il cielo magrittiano.
Il palco è metà azzurro e metà celeste nel primo atto col pavimento diviso in due triangoli rettangoli; nel secondo e terzo atto i colori diventano bianco e nero.
La recitazione è curatissima nei gesti e nei movimenti, giocata su ogni singola parola che viene pronunciata e cantata, per cui i personaggi sono disinvolti e credibili. Il silenzio assume un significato particolare, soprattutto quello lunghissimo che accompagna la prima scena con Selim e Konstanze, come si diceva, seduti ai due capi di una lunghissima tavola, intenti a sorbire una minestra. Unico elemento di scena un cesto di arance, usate come armi improprie nel duetto Osmin-Blonde del finale del primo atto. Il motivo delle porte, aperte e chiuse nel cubo durante i primi due atti, torna anche nel terzo, quando i quattro inglesi, nel vano tentativo di fuggire, entrano ed escono da porte nascoste nel nero fondale. I mimi sono guardiani in nero e con arcuate scimitarre. Non c'è favola. L'umorismo c'è ma è contenuto: si sorride spesso senza ridere mai. Qui, non va dimenticato, i tolleranti, quelli che perdonano sono i musulmani.
Rodney Clarke è un Selim imponente nella figura e di notevole appeal, gentile e sensibile, vero esempio di tolleranza e comprensione, capace di capire e perdonare, convinto che ci si possa (che ci si debba) sacrificare per la felicità della persona amata, anche a costo di perderla; commovente il finale, con Selim seduto a terra, ormai solo. Maria Grazia Schiavo è Konstanze, voce importante e di bel colore, capace di tratteggiare le sfumature del personaggio e di sfruttare appieno le proprie potenzialità, superando talvolta una certa rigidità nelle agilità; debuttando nel personaggio, il soprano conferma di avere raggiunto una maturità artistica con un personaggio affrontato con linea solida e musicale, unita a un timbro luminoso e compatto. Beate Ritter è una Blonde eccellente, dalla pronuncia impeccabile e dalla presenza attoriale assai significativa, piena di grazia ma anche energica e decisa. Charles Castronovo è un Belmonte di aspetto gentile e dalla voce piena, capace di infiorettare e di fraseggiare con padronanza. Corretti vocalmente e appropriati attorialmente Cosmin Ifrim (un minuto Pedrillo) e Jaco Huijpen (un imponente Osmin), il cui confronto è particolarmente ironico; in particolare ha convinto la figura di Osmin, non calcato nei toni e nei modi macchiettistici.
Gabriele Ferro dirige l'orchestra con tempi precisi e suoni curati, incisivi e brillanti, leggeri ma carichi dei significati che la partitura offre; i suoni sono articolati in una concertazione trasparente e luminosa; la musica resta morbida e si adatta alla perfezione alle voci dei protagonisti.
Il coro è in abiti contemporanei (ma di foggia islamica: le donne hanno il velo), schierato in platea tra gli spettatori.
Teatro gremito, vivo successo di pubblico con molti applausi.