Tutti, ne Die fledermaus di Johann Strauss jr. - cioè in quella che un esperto come Ernesto Oppicelli ha definito «l'operetta più operetta che sia mai stata scritta» - fingono d'essere qualcun altro, oppure qualcos'altro, oppure mentono spudoratamente; e così l'inganno e la beffa diventano i motori della vicenda.
Gabriel von Eisenstein finge di consegnarsi in prigione per scontare dieci giorni d'arresto, ma prima vuole recarsi alla festa del Principe Orlofsky dove si fa passare per Marquis de Renard; fingendosi scapolo, tra l'altro, per poter corteggiare le belle donne che incontra. Uscito il marito, sua moglie Rosalinde riceve Alfred, suo spasimante, che si cala subito nei panni dell'assente padrone di casa indossandone vestaglia e papalina. Ma mentre i due tubano di gusto, arriva Frank, il direttore del carcere, che lo arresta credendolo Eisenstein; ed Alfred non si oppone, per non tradire la donna. Adele, la loro cameriera, finge d'avere una zia malata; ed avuto il permesso d'assentarsi ruba un vestito della padrona e si reca anche lei – millantandosi un'attrice - alla festa di Orlofsky, alla quale giunge dopo pure Rosalinde, in incognito; si presenta come una contessa ungherese ed è mascherata in volto. Anche Frank sopraggiunge a Villa Orlofsky, sotto il nome di Chevalier de Chagrin: perché dichiarare la propria funzione, in quel contesto così frivolo ed altolocato, non sarebbe proprio conveniente. A tirare le fila di tutto l'intreccio di bugie ed inganni è Falke - amico del giovane, ricco ed annoiatissimo Orlofsky - che intende vendicarsi di uno scherzo alquanto pesante fattogli da Eisenstein tempo prima; gli inviti li ha tutti fatti lui, intuendo che Gabriel avrebbe subito corteggiato l'ignota ungherese, senza sapere che in realtà è la sua mogliettina.
Come vada a finire la storia, e come trovi compimento la vendetta di Falke, lo sappiamo tutti. Nel terzo atto del Pipistrello, ambientato nella prigione cittadina dove Frank fa ritorno al mattino alquanto alticcio, Strauss jr. ed i suoi librettisti Haffner e Genée ci donano uno dei momenti più divertenti e folli che possiamo incontrare in un'operetta, ponendosi in questo sulla scia di due maestri del surreale quali Hervé ed Offenbach: perché, quanto a bizzarrie ed eccentricità, la scuola parigina non ha rivali. Guarda caso, la fonte primaria di questo capolavoro di sapore mitteleuropeo è una travolgente piéce comica di Henry Meilhac e Ludovic Halévy, Le reveillon; autori di grande successo e, va da sè, naturalmente francesi.
A siglare la stagione 2015/2016 del Verdi di Trieste, rievocando in tono ahimè minore i fasti del mitico Festival dell'Operetta (quanto ci manca, accidenti!), ecco dunque Die fledermaus in edizione tutta nuova di zecca, però in lingua originale; o quasi, perché la regia di Daniel Benoin affida qualche rara e brevissima battuta in italiano ai personaggi 'minori', lasciando che tutto il resto dei dialoghi e delle musiche restino in tedesco. Si può ben capire, dunque, che il risultato finale, per chi ascolta, appaia alquanto incongruo. Solo il simpaticissimo carceriere Frosch – ben imbevuto di slivovitz, di cui tesse tutte le lodi possibili - si esprime come noi, anzi solamente in triestino: perché la vicenda viene calata nella Trieste ancora asburgica, e poiché rifiuta d'imparare il tedesco – «sono a casa mia, perbacco! » - per capirlo il suo diretto superiore deve sfogliare continuamente un dizionario bilingue.
A parte questa riuscita macchietta, lo spettacolo costruito da Benoin con il supporto delle gradevoli scenografie di Jean-Pierre Laporte – spiritosa in particolare la stravagante serra di casa Eisenstein, con un'enorme giraffa ed uno struzzo a far da abat-jour – ed i graziosi costumi creati da Nathalie Bèrard-Benoin, non è certo tra quelli memorabili. Mostra di tenere bene il ritmo, e procede senza sbandamenti; però, a sipario calato, non lascia grande impressione. Che dire? La regia di Benoin procede, da un atto all'altro, su una rotta placida e tranquilla, mettendo in pratica il libretto ma senza verve, senza pimento, senza offrire insomma espedienti coinvolgenti o trovate accattivanti. E si poteva pure risparmiare la scena – banalissima, sfruttatissima - dell'orgia postprandiale degli invitati a Villa Orlofsky.
A dare un giusto impulso alla vicenda, per fortuna troviamo una orchestra in pompa magna - quella del Teatro Verdi, ovviamente - e la flessuosa guida musicale di Gianluigi Gelmetti che imposta una concertazione esemplare: vivida, fantasiosa, comunicativa, dal ritmo rilassato e dal bel respiro sinfonico nella luminosa ouverture; e generosa di nervo, di belle atmosfere, di colori, di attenzioni anche verso i piccoli dettagli strumentali.
Non tutta la compagnia si mostra all'altezza del compito, purtroppo. Troneggia su tutti la deliziosa Adele del soprano norvegese Lina Johnson, ammiccante, carnosa, peperina al punto giusto: la sua autodescrizione in «Mein Herr Marquis» è decisamente piena di radiosa e piccante femminilità. Mihaela Marcu è ben nota al pubblico triestino, e non delude neppure stavolta perché la sua Rosalinde è ben tratteggiata nel carattere, e rifinita nella linea vocale: eccola quindi vantare con bella eleganza la sua (finta) nazionalità magiara in «Ja, die nationalen Töne». Il soprano slovacco Daniela Banasová non possiede né voce né il temperamento per sostenere la figura ambigua di Orlovsky, ed il personaggio zoppica sin dalla flebile presentazione di «Hören Sie mich an!»; e la regia non l'aiuta di certo facendole tirar fuori i lunghi capelli biondi a far da stridente contrasto con la finta barba nera. Il tenore tedesco Cristoph Strehl disegna un Eisenstein scenicamente poco brillante, benché vocalmente irreprensibile; convincente solo a metà l'Alfred del giovane tenore turco Merto Sungu; ben centrato il simpatico Frank del basso baritono Horst Lamnek (poco da dire, qui si sente l'esperienza maturata in questo genere di repertorio); ben tratteggiato il Falke del baritono budapestino Zoltan Nagy; irresistibile il Frosch triestino consegnato dall'attore Fulvio Falzarano. Ida era interpretata da Simonetta Cavalli, Blind da Andrea Binetti.
Buona la prestazione del coro di casa, diretto da Fulvio Fogliazza; coreografie un po' quaresimali – quattro ballerini quattro – e prive di firma.
(foto Visual Art)