Lirica
DIE FRAU OHNE SCHATTEN

GLI INCUBI DELL'IMPERATRICE

GLI INCUBI DELL'IMPERATRICE

Alla Scala le repliche di Frau ohne Schatten si intrecciano a quelle delle Nozze di Figaro: queste ultime date nove volte in trent'anni, quella solo tre in quasi un secolo prima di ora, troppo poco per un'opera complessa e simbolica, musicalmente un capolavoro.
Non ci sono favole né orientalismi nello spettacolo di Claus Guth: l'imperatrice è chiusa in una clinica per malati mentali e quello che vive è un lungo incubo, generato da accadimenti non risolti nel suo passato, principalmente l'essere emotivamente dominata da un padre autoritario e da un marito prepotente, i quali non le hanno consentito un pieno sviluppo verso la consapevolezza del proprio “posto nel mondo”. I rimandi sono molti e giusti, oltre che interessanti e stimolanti (solo per citarne alcuni Strindberg, Magritte, Freud, Ernst): dalla pittura alla letteratura, dal teatro alla medicina. Per rendere il tutto più pregnante l'ambientazione è coeva alla scrittura dell'opera, terminata nel 1917 e andata in scena due anni dopo. La scena di Christian Schmidt presenta una camera in stile vagamente Secessione: alte pareti di legno scuro venato, un soffitto bianco concavo per sette cupolette e una grande finestra sul fondo che scorre svelando altri ambienti o caratterizzando in modo diverso la camera. I costumi, sempre di Christian Schmidt, confermano l'epoca dell'ambientazione e materializzano gli incubi. Il senso onirico dello spettacolo e lo scivolamento nell'incubo sono denotati dalle luci perfette di Olaf Winter e dai video di Andi A. Müller che mostrano mani che accarezzano il pelo di animali, lampi e quarci di luce.

Claus Guth ha interessanti intuizioni, a cominciare dai doppi, un tema fondamentale nella cultura dell'epoca che ha fortemente improntato il contemporaneo. L'Imperatrice è accompagnata spesso in scena da una gazzella che indossa la stessa camicia da notte, peraltro identica a quella della moglie di Barak. La rappresentazione inizia senza musica, l'Imperatrice è a letto e si contorce in preda agli incubi e alla febbre alta. Al capezzale il marito, un dottore che la sta visitando e un'infermiera. L'opera altro non è che la materializzazione dei sogni della protagonista, tanto che nel finale la troviamo di nuovo a letto, malata. Poi si alza, si avvia alla finestra e si volta verso il pubblico con un grande sorriso sereno: il percorso è compiuto, una nuova vita consapevole può iniziare. La mancanza dell'ombra non è la mancanza della maternità, come tradizionalmente si intende. L'imperatrice percepisce la mancanza dell'ombra come qualcosa di non compiuto nella sua vita, quando invece lei l'ombra ce l'ha e bella in evidenza, come tutti gli altri. Il senso del titolo è dunque tutto interiorizzato, una mancanza nell'anima che genera una “malattia” (nel senso di alterazione dal reale). Da subito l'Imperatrice rivive la “cattura”, il matrimonio: una gazzella viene ghermita da un falco, uomini zoomorfi. Presente spesso in scena il padre, un'antilope zoppa che la attira e la respinge. La casa del tintore è indicata da una parete marmorizzata grigia con la finestra a fascia a bocca di lupo. Evidentemente Barak è legato alla protagonista: torna dalla caccia con una carcassa di gazzella, la moglie è la replica dell'Imperatrice, la quale prova ad avvicinarsi con infinita dolcezza ai due mortali e li sfiora con la punta delle dita, senza avere il coraggio del contatto fisico. Accentuate le difformità fisiche dei fratelli del tintore, invece il Giovinetto è bello come un'apparizione salvifica. Il finale dell'atto primo trova l'Imperatrice a braccia aperte verso la nutrice come a chiedere “Perchè?”.
Il percorso della malata continua in modo coerente e facilmente comprensibile: “Goldenene Trank, Wasser des Lebens” (bevanda dorata, acqua della vita) è la medicina sciolta dentro un bicchiere dal dottore. Ma l'Imperatrice è ferma: “Mein Platz ist hier in dieser Welt” (il mio posto è qui in questo mondo). Difficile liberarsi dagli incubi, difficile sfuggire al passato. Il percorso è lungo, l'Imperatrice, salvando la famiglia di Barak salva anche la propria: le due coppie sono quindi ricomposte fra un gruppo di bambini con teste di cerbiatto. Nel finale l'Imperatrice resta sola in stanza, finalmente può alzarsi dal letto, guardare fiduciosamente fuori dalla finestra e sorridere. Il padre resta a terra, immobile. Ormai fa parte del passato.

Marc Albrecht ha sostituito l'indisposto Semyon Bychkov sul podio e ha incantato il pubblico con una concertazione eccellente che ha virato verso l'espressionismo con suoni incisivi, aspri e scabri, dove la leggerezza e le tinte liberty restano sullo sfondo, comunque percepibili, enfatizzate dalle dissonanze. Il maestro rende una concertazione pulsante e struggente, esaltando la ricchezza cromatica e la potenza sinfonica con un colore orchestrale di sontuosa bellezza e di straordinaria compattezza di suono. Gli intrecci dei diversi piani sonori e tematici sono resi in modo assai preciso, mostrando in modo intellegibile l'ordito di una partitura di grandissimo fascino. L'orchestra lo segue con una prestazione di livello altissimo, un dominio completo del suono per un organico oceanico ma compatto ed equilibratissimo. Ottima la prestazione del coro e del coro di voci bianche, entrambi preparati da Bruno Casoni.

Il cast è ottimo vocalmente e si presta in modo egregio alle istanze attoriali della regia con una gestualità curata e teatralissima dentro una scena perfetta per il rimando delle voci.
Emily Magee è un'Imperatrice dal canto lirico e disteso, senza cesure; la bella voce è radiosa ma venata dai turbamenti impressi dalla regia: il suo “Ich will nicht” finale suona come il non poter basare la propria felicità su un passato non risolto; il soprano è sempre presente in scena e regge con fermezza le ampie e ripetute gettate all'acuto, le note estreme non sono mai sfocate e l'accento è puro e appassionato. Accanto a lei è parimenti di alto livello la Donna di Elena Pankratova, la voce ampia e solida è adatta a sostenere le lunghe frasi e gli sbalzi di tessitura, rendendo l'evoluzione psicologica di un ruolo assai complesso con un ventaglio di variegate sfumature. Johan Botha ha voce duttile per la parte frastagliata dell'Imperatore con acuti puliti e un corposo e morbido registro centrale. Falk Struckmann è un intenso ed espressivo Barak: la voce è possente per estensione e volume, ma usata con grande partecipazione emotiva per rendere tutta la passione dell'uomo. Anche la Nutrice di Michaela Schuster si pone in relazione con l'Imperatrice, essendone l'opposto e indovinandone i desideri: quando l'Imperatrice, nel finale, acquista consapevolezza di sé, ella diventa superflua e scompare; vocalmente sempre a fuoco, la cantante è particolarmente espressiva nelle note gravi che fanno il paio alle ali puntute di pipistrello. Incisivo e vocalmente adeguato Samuel Youn, Messo degli spiriti in abiti di dottore (e una voce dei guardiani). Radiosa e cristallina la Voce del falco Talia Or, figura essenziale nell'economia dell'allestimento. Maria Radner è la Voce dall'alto, qui in carne e ossa identica all'Imperatrice. Adeguati tutti gli altri: Mandy Fredrich, Peter Sonn, Christian Miedl, Alexander Vassiliev, Roman Sadnik, Mikheil Kiria. Nel ruolo muto del padre Paul Lorenger.

Pubblico numeroso e restato in sala fino alla fine per tributare lunghi e meritati applausi a uno spettacolo il cui senso vale per tutti: l'unica possibilità di salvezza è vivere con pienezza e consapevolezza la propria vita.

Visto il
al Teatro Alla Scala di Milano (MI)