Milano, teatro alla Scala, “La vedova allegra (Die lustige Witwe)” di Franz Lehàr
UNA VEDOVA ALLEGRA.. MA NON TROPPO
Sommo capolavoro e la più celebre di tutte le operette, “apocalissi leggera che attraversa la cultura della belle époque/finis Austriae”, la Vedova allegra arriva per la prima volta alla Scala nella lussuosa versione originale in tedesco. Ma i dialoghi, forse ritenuti poco comprensibili e non divertenti per il pubblico milanese sono stati tagliati e sostituiti da intermezzi in cui un narratore racconta quello che avverrebbe in scena, come al Festival di Glyndebourne all'inizio degli anni Novanta con testo di Tom Stoppard. Questa narrazione è evidentemente apparsa troppo letteraria, per cui, seppure inserita nel programma di sala, è stata invero sostituita da interventi a ruota libera di Philippe Daverio, raffinato critico d'arte, ex assessore alla cultura del comune di Milano.
All'inizio Daverio si autodefinisce antropologo culturale, esperto di tribù e della loro decadenza. Egli, nelle vesti di Njegus ma nei fatti narratore, è bravissimo nel cucire insieme i brani musicali con le sue consuete cultura ed ironia. Non evita agganci al presente politico, nazionale e locale, con quel senso di libertà e di satira che è (o dovrebbe essere) proprio del teatro. Le vicende del Pontevedro non sono poi così distanti dall'Italia di oggi (Elena del Montenegro conosce Vittorio Emanuele III alla Fenice di Venezia, anche se Lehàr può solo averlo “guardato col cannocchiale dall'asburgica Trieste”). Il conte Danilo sarebbe finito nel mirino del ministro Brunetta, perchè in ambasciata lavorava al massimo un'ora al giorno; la fanfara rischia di non suonare più, dopo gli annunciati scioperi. Il critico in cravattino ha sottilmente ironizzato raccogliendo una finta banconota caduta dall'alto, dicendo “questa la tengo io, non si sa mai..”. I suoi interventi facilitano la comprensione del testo originale, coi doppi sensi (“wahl” scegliere o votare, “frau” donna o moglie) e le inflessioni dialettali, peccato sia microfonato: la voce giunge metallica, con eco e rimbombo, a momenti le parole si comprendono con difficoltà.
I momenti musicali sono belli a vedersi. Pier Luigi Pizzi ambienta la scena negli anni Trenta, bianco e nero dominanti sul palco e nei costumi, inframezzati da varie tonalità di rosa, fucsia e viola, eleganti, scintillanti, pieni di gioielli. Il palcoscenico deborda fino a cingere l'orchestra ma l'utilizzo, come nelle riviste degli anni Cinquanta, è l'unica invenzione registica e se ne abusa nel corso della recita. La messa in scena è raffinata; sul palco specchi, attrezzi ginnici, lettoni, dormeuse giganti di spire avvolgenti, una lussuosa berlina da cui scende Hanna vestita da uomo, stile Marlene Dietrich. Bello lo scivolare di lato della pedana con su la scena, come a voltare pagina.
I movimenti si limitano a gesti contenuti, misurati, però efficaci solo nei rapporti a due, travolgenti quelli di Valencienne e Camille, incontro di due solitudini quelli di Hanna e Danilo.
Ma il risultato non convince, in quanto manca il ritmo teatrale, apparendo come un gala dell'operetta i cui brani musicali sono cuciti insieme da un abile presentatore. Gli stessi cantanti faticano a rendere lo spessore dei personaggi, parcellizzati in interventi chiusi di pochi minuti. E momenti importanti del plot, come lo scambio di dame nel padiglione o la faccenda del ventaglio, rimangono poco comprensibili. Poco incisive ai fini del risultato le coreografie di Gheorghe Iancu e Gillian Bruce.
Eva-Maria Westbroek ha voce bella ed imponente ed imponente è fisicamente; tuttavia risulta troppo altera, distaccata, hollywoodiana e poco sensuale, malinconica e sola più che allegra e “vogliosa” come il titolo tedesco sottintende. Al confronto è molto spigliata Nino Surguladze, una Valencienne seducente che balla benissimo il can-can e il valzer, mostrando gambe e mutande come le ballerine, perfettamente affiatata a Dmitry Korchak, un Camille dalla voce perfetta, che non teme gli acuti e svela gli accenti sentimentali del personaggio, non solo avventuriero. Will Hartmann è il conte Danilo, presenza affascinante ma attorialmente debole; la voce è di bel colore ed usata in modo sapiente; colta e fantasiosa la descrizione che ne dà alla fine Daverio: “è nello spleen come se avesse letto tutto Baudelaire in un'unica serata”.
David Adam Moore è Cascada, ispanico arrivato in Francia per far fortuna: la voce passa in secondo piano davanti alla sua abilità ginnica di fare verticali, ruote ed altro in perfetto stile (peccato il vistoso tatuaggio sulla schiena che poco si addice al personaggio). St. Brioche è Alex Kaimbacher, l'altro playboy. A forza di tagli nello spartito gli altri personaggi sono presenti ma, al tempo stesso, assenti, confusi fra comparse e coristi. Tra tutti si nota la spiritosa Olga di Paola Gardina, oltre all'impettito barone Zeta di Wolfgang Bankl.
A causa della ristretta buca, Asher Fisch fatica a seguire i cantanti e ad armonizzarli coi musicisti. La sua direzione non riesce a ricreare l'atmosfera fin-de-siècle della partitura, con quel senso di inarrivabile fuggevolezza e di nostalgia che i valzer hanno. Il risultato è poco frizzante, anche per i tempi allargati. Lo stesso finale “Lippen schweigen” non commuove.
Il coro è stato ben preparato da Bruno Casoni.
Teatro tutto esaurito, pubblico divertito e plaudente, ma sulle successive recite si è abbattuta la scure degli scioperi proclamati dal sindacato Fials, che mettono in dubbio anche la prima del sette dicembre. E allora sarebbe davvero un problema: economico, di immagine e, soprattutto, di rispetto del pubblico.
Visto a Milano, teatro alla Scala, il 16 novembre 2008
FRANCESCO RAPACCIONI
Visto il
al
Teatro Alla Scala
di Milano
(MI)