Ogni epoca ha il suo “Ring” e alcuni connubi fra registi e direttori hanno scandito la tetralogia negli anni con approcci diversi diventando dei classici: Chéreau/Boulez a Bayreuth alla fine degli anni ’70, Harry Kupfer/Baremboim a Berlino all’inizio degli anni ’90, giusto per ricordarne alcuni. La produzione del Ring affidata alla regia della Fura dels Bauls e alla direzione di Mehta ha marcato un’ulteriore svolta e si pone come uno degli spettacoli di riferimento per una moderna fruizione della Tetralogia. Di questa fortunata coproduzione fra l’Opera di Valencia e il Maggio Fiorentino viene ora riproposta al Comunale nell’anno wagneriano la prima giornata. Scelta legittima, in quanto Valchiria è delle quattro la più adatta per ragioni drammaturgiche e melodrammatiche ad essere rappresentata da sola.
L’allestimento ipertecnologico lasciò all’epoca tutti col fiato sospeso, affascinati da un’inventiva inesauribile, dall’uso inedito delle proiezioni tridimensionali e da un modo, se pur “ commerciale”, di rendere immediata e accessibile la mitologia wagneriana come fosse un fantasy o un videogioco. Ricordiamo ancora che, dopo avere visto il prologo, attendevamo con impazienza le sorprese delle giornate successive programmate negli anni a venire come avviene per i sequel dei film di successo.
Rivedendola se ne apprezza sempre la cura visiva e la scorrevolezza (non da poco, data la durata), ma, venuto meno l’aspetto di novità, risultano più evidenti i limiti di un’interpretazione visuale e didascalica, più tradizionale di quanto non si creda nonostante la componente tecnologica, che, rimanendo alla superficie, non indaga nuove chiavi di lettura.
In questa sede ci soffermiamo su alcune scene, rimandando alla precedente recensione presente nel sito per una descrizione complessiva dello spettacolo.
In apertura un video traduce il fremere tempestoso degli archi: una foresta livida e ostile attraversata da due lupi in fuga la cui immagine sfuma con virtuosismo nella corsa generando due paia di gambe infantili e ricompone l’identità di Siegmund e Sieglinde ed il loro essere, oltre che gemelli, metà uomini e metà lupi. Sieglinde è tenuta alla catena e si muove carponi in un recinto abbozzato da un cerchio di ossa rosicchiate da Hunding, cane-padrone. I due gemelli si annusano, si scrutano, si fronteggiano come due fiere, in un percorso di conoscenza, liberazione e rinascita che troverà il suo apice commovente nella notte di primavera, quando Sieglinde imparerà a camminare guidata dal fratello.
Se ormai non ci stupiamo più davanti alle zoomate video da Google earth o alle esplosioni planetarie, ci piacciono ancora i video che illustrano in una piccola porzione dello schermo il racconto di Wotan: immagini della memoria in bianco e nero che ripropongono, deformate dagli stilemi del cinema tedesco anni ’30, personaggi e situazioni del “Rheingold” secondo la Fura (l’autocitazione si fa Leitmotiv) rendendo intellegibile l’intricato antefatto.
Due immagini molto “furere” valgono lo spettacolo: la cavalcata delle valchirie è introdotta da un pendolo alla cui estremità sono aggrovigliati in una matassa sferica i corpi nudi dei caduti in un inesorabile oscillare di morte e destino; nel finale, intorno a un disco inclinato su cui giace addormentata Brunilde, si dispongono mimi a gambe conserte che accendono a catena le torce con geometrica precisione chiudendo l’anello di fuoco.
Ritroviamo la direzione di Zubin Mehta, analitica, raccolta, quasi intimista, incline ad indagare con cura le parole e i dettagli meno evidenti, con tempi distesi che danno significato ai silenzi e mettono in rilievo il testo ed il fraseggio dei cantanti. La direzione, più lirica che epica, se in parte sottace lo slancio febbrile e la potenza tragica andando a scapito di una continuità della tensione narrativa, illumina certe pagine di una tale verità che il Ring “oscuro” ci appare vicino e comprensibile. Mehta privilegia l’introspezione, avvolge di una delicatezza struggente (e per certi versi pudica) l’amore incestuoso dei due gemelli, dà rilievo ai momenti di scelta e di crisi ed è grazie all’accompagnamento orchestrale, ipersensibile e intriso di tragicità ineluttabile, che il dramma interiore (e tutto umano) di Wotan diventa palpabile e il lungo racconto si fa vibrante.
Anche perché, rispetto alla passata edizione, il Wotan di Juha Uusitalo è apparso in difficoltà, con problemi di tenuta e intonazione crescenti nel corso dell’opera.
Nel cast ritroviamo anche la Brunhilde di Jennifer Wilson, sempre incisiva e possente come deve essere una valchiria, ma dal canto composto e sfumato nonostante il volume importante. Ci è decisamente piaciuta la coppia dei gemelli (peraltro già apprezzati a Firenze in “Frau ohne Schatten”): la Sieglinde di Elena Pankratova convince, oltre che per doti sceniche, per la voce perfettamente modulata di sorprendente tenuta vocale e il fraseggio sensibile con cui illumina l’evoluzione del personaggio; introspettivo e adatto all’espansione lirica richiesta da Mehta il Siegmund di Torsten Kerl, dal canto differenziato e dalla linea sempre curata che riesce, grazie a innegabili doti musicali, a risolvere bene i momenti più spinti nonostante qualche carenza di volume. Piuttosto debole la Fricka di Daniela Denschlag e il confronto con Wotan risulta sottotono. Imponente e temibile l’Hunding di Stephen Milling, dalla voce scura e possente, ma sempre ben controllata. Precise tutte le valchirie fra cui spicca la Gerhilde di Bernadette Flaitz. Bene anche la Waltraute di Pilar Vázquez. Ricordiamo le altre: Ortlinde (Jacquelyn Wagner), Schwertleite (Maria Radner), Helmwige (Eugenia Bethencourt), Siegrune (Julia Rutigliano), Grimgerde (Patrizia Scivoletto) e Rossweisse (Stefanie Iranyi).
Grande successo per l’allestimento, ovazioni a Mehta, applausi calorosi alla compagnia di canto con qualche dissenso per Uusitalo.