Lirica
DIE WALKURE

Ravenna, teatro Alighieri, “D…

Ravenna, teatro Alighieri, “D…
Ravenna, teatro Alighieri, “Die Walküre” di Richard Wagner IO SONO IL MENO LIBERO DI TUTTI Il teatro di Eimuntas Nekrošius ha una precisa e riconoscibilissima sintassi e propone sempre un discorso stilistico di altissimo livello; vive di simboli che spingono nel profondo l'indagine cognitiva verso gli enigmi della vita ed i flussi di coscienza. I gesti assumono una sorta di ritualità ancestrale; oggetti (e movimenti) si caricano di simboli, a volte non immediatamente comprensibili, ma questo non è rilevante: l'importante è che ci si immerga nel mondo intrinseco alla coscienza dell'uomo, in un gioco di rimandi conscio-inconscio altamente suggestivo e vitale. Vibrante ed evocativo, nelle sue presenze in palcoscenico. Non si propongono assolutamente soluzioni per sciogliere i nodi dell'anima o per drizzare le tortuosità della mente (e della vita): il lituano ci ha abituato a indicare i nodi simbolici dei testi e delle situazioni da affrontare. Ognuno si deve attrezzare con i propri mezzi e iniziare un “esame” che dovrebbe non finire mai, condotto sul confine tra conosciuto e ignoto. Tronchi d'albero che somigliano a piccoli vulcani sono in scena fin dall'inizio, per poi intuire che sono i mozziconi di enormi candelone, immagine archetipica, ricorrente per tutta la rappresentazione (vicino a una candela non ci si sente mai soli). Pietre triangolari incombenti, appese a grappolo sopra un divano sproporzionato ed enorme, emblema della vita familiare e coniugale, oppure sospese a pioggia su tutto il palcoscenico, il peso incancellabile di colpe non sempre rielaborate e comprese razionalmente, che però finiscono per congelare la gestualità e l'afflato sentimentale, impedendo l'amore, l'affetto, qualsiasi gesto di tenerezza. Frecce, che Hunding scaglia contro Siegmund, che trafiggono i corpi degli eroi come tanti San Sebastiano, che passano di mano in mano. Colombe bianche, che svolazzano leggere e timorose nel corso del luogo addio tra Wotan e Brünnhilde, uccelli che i due liberano dalle mani verso un cielo che non concede libertà né tregua. Candele. La candela con cui Sieglinde indica a Siegmund la via di casa; la candela-luce tremolante che indica a Siegmund la spada; le candele sui tripodi ortodossi che Wotan scaraventa a terra con una furia quasi iconoclasta; le grandi candele-gerle che le Valchirie portano sulla schiena; i mozziconi di enormi candelone che riempiono lo spazio. Strani totem circolari come enormi leccalecca neri, indecifrabili, che oscillano lievi a un vento che non c'è. Come non c'è luce, né aria, in questa atmosfera chiusa, densa, in cui le colpe pesano come macigni ed i rapporti duali sono improntati alla incomunicabilità. E alla distanza, incolmabile, tra i viventi. Sia tra le divinità che nell'umanità. Come sempre il regista cura al massimo, in modo impeccabile, la recitazione e la gestualità: nulla è mai casuale, nei corpi e nelle voci. Ogni gesto è studiato e misurato, pensato a lungo e ponderato, ed ha una sua ragione di essere, intrinseca ed estrinseca. E le intuizioni di Nekrošius sono magistrali, le interpretazioni folgoranti, alla ricerca di una verità nel libretto e nella musica. Sieglinde guida il cammino di Siegmund con una candeletta attaccata alla cima di un lungo palo, gli indica la casa in cui può riposare. E prendere coscienza. Siegmund e Sieglinde involontariamente si toccano i polsi ed hanno un brivido, un moto spontaneo nel cuore: si riconoscono vedendo le proprie immagini riflesse in un bacile di rame pieno d'acqua; le loro anime sono gemelle, al di là dell'aspetto esteriore e quel “guizzo nello sguardo” che nomina Hunding altro non è se non comunione di anime, appunto. I due gemelli toccano con fare sacrale l'acqua del bacile e poi si passano con il massimo rispetto la mano umida sulla bocca, affinchè la parola renda appieno il senso di quel tumulto sentimentale. Invece Hunding ossessivamente si pulisce le scarpe sul pavimento e contamina la purezza di sentimenti dei gemelli-amanti e dell'acqua (e dell'immagine dei due, di conseguenza), lavandosi con sprezzo massimo le mani in quello stesso bacile, in quella stessa acqua, mentre si prepara a perseguitare Siegmund con strali lentissimi che Sieglinde riesce sempre a deviare prima che colpiscano il bersaglio, anzi l'ultimo riesce a inviarlo indietro a Hunding che lo spezza in due e si salva. Il frassino è un ricordo, un peso che Siegmund si porta sulle spalle dovunque va e a nulla serve l'amorevole cura di Sieglinde che lo innaffia con la mano con inusuale dolcezza e mitezza: l'albero non fiorisce. Notung non viene estratta dal frassino ma consegnata personalmente da Wotan a Siegmund (in una processione con tettucci triangolari di legno così tipici dalle parti di Nida) ed è un peso greve e ingombrante che egli si strascina dietro con somma fatica fino alla morte. Ma sulla lama di quella ingombrante spada le mani dei due innamorati si toccheranno per la prima volta. Che cosa possono loro contro la oscura e ineluttabile fatalità del destino? Fricka stringe continuamente le mani a pugno, salvo quando cerca di liberarsi con gesti forti e schifati del tradimento del marito, sfregandosi i palmi lungo il corpo, quei palmi baciando i quali Wotan presta giuramento alla intransigente e retrograda moglie. Brünnhilde e Siegmund lasciano scivolare dalle loro mani manciate di sabbia, presaghi della morte del secondo e del lungo sonno della prima, consci che, nonostante la loro condizione privilegiata, il tempo passa per tutti: e non è come con la clessidra che, una volta che la sabbia è finita, è sufficiente rigirarla per ricominciare da capo, qui la sabbia si sparge, disperdendosi, e, una volta finita, non si recupera più. È andata, come il tempo, come le occasioni. Come la vita. Gli dèi di Nekrošius sentono il peso insopportabile dell'incomunicabilità, della mancanza di affetto, della impercorribile distanza tra due persone, come nella storia di Achille con la tartaruga. Allora Brünnhilde non può non parteggiare per gli innamorati, nonostante il diktat paterno. Ma fronteggia il padre da pari a pari: il loro è un legame intimo e fisico profondissimo, come le loro mani che si intrecciano. Wotan cede all'idea antiquata (come il suo vestito con la crinolina e gli strani “abbaini” sulla gonna rigida) di Fricka e si addormenta in piedi con la testa sulla spalla di lei. Poi Brunnhilde sostituisce Fricka senza che Wotan se ne accorga. Wotan si morde i polsi ed i palmi, forse per cancellare quell'incancellabile giuramento. Wotan sente che sta per perdere per sempre la figlia adorata perchè lei ha difeso strenuamente quella sentimentalità perduta; entrambi cadono a terra vittime di un sonno non ristoratore, la Valchiria protetta da un denso fumo rossastro, il corpo di Wotan sussulta sugli ultimi sussulti dell'orchestra. L'orchestra dell'opera nazionale della Lituania è omogenea ed apprezzabile, alla fine soddisfacente nelle mani di Jacek Kaspszyk, che la imposta secondo le direttive registiche. Anche tutti i cantanti dimostrano una adesione totale, interiore e profondissima, con le indicazioni registiche. Ottimi i due gemelli, il Siegmund corposo e brunito di John Keyes e la Sieglinde sensuale ed umana di Sandra Janušaité. Ottimo soprattutto il Wotan di Anders Lorentzson, corposo e profondo, violento e tormentato, un dio consapevole della disfatta ed intimamente lacerato nel rapporto con la figlia, un dio che non esita a dichiarare “io sono il meno libero di tutti”. Vladimiras Prudnikovas è un tonante e barbarico Hunding, Laima Jonutyté una ferrea e dominante Fricka. Nomeda Kazlaus è una Brünnhilde molto intima e fragile, una Valchiria che unisce la componente eroica a quella, dominante, femminile e lirica, una figlia nell'ultimo, lungo e doloroso confronto con il padre, una interpretazione non muscolare ma piena di duttilità ed espressività, fino alle sfumature. Non memorabili le otto Valchirie. Se la regia di questa Valchiria è affascinante e spettacolare, i costumi di Nadežda Gultiajeva sono monumentali e brutti come le parrucche vistose ed incongrue e le luci sciatte (nere, bianche e rosse) di Levas Kleinas; di Marius Nekrošius le ingombranti e pensanti scene, così inusuali nella cifra stilistica, aerea e leggera, del teatro del padre che, nella lirica, è di certo meno libero che nella prosa. Lo spettacolo, dopo il debutto a Vilnius nel marzo scorso, è in turnè in Europa ed è stato ospitato al Ravenna Festival in esclusiva per l'Italia. Pubblico convinto ma poco numeroso. Si esce dal teatro forse affaticati dalla miriade di simboli, segni e gesti che costituiscono il linguaggio teatrale del maestro lituano, ma questo si sa. Come si sa che, all'uscita dal teatro, la fatica è solo all'inizio, che poi, a casa, e nei giorni successivi, si porta avanti il vero faticoso lavoro di esame di quei simboli, di applicazione alla propria vita delle intuizioni folgoranti che il regista ha messo in evidenza in un gioco di rimandi sempre più in profondità. A Nekrošius non si pongono domande, le domande si pongono a se stessi dopo avere assistito ad uno suo spettacolo. Visto a Ravenna, teatro Alighieri, il 15 luglio 2007 FRANCESCO RAPACCIONI
Visto il
al Alighieri di Ravenna (RA)