Napoli, teatro di San Carlo, “Die Zauberflöte” di Wolfgang Amadeus Mozart
FLAUTO MAGICO POETICO E STRUGGENTE, COME LA VITA
Lo Sferisterio di Macerata ha proposto l’accostamento, nella stessa giornata, di Thamos, König in Aegypten con la Zauberflöte, mostrando quanto il primo sia tra le fonti della seconda, oltre ai simboli massonici che rimandano all’uso della simbologia egizia presso le logge viennesi.
Continuando su una linea che ha portato al San Carlo molti artisti contemporanei, il teatro partenopeo ha affidato la regia e le scene di questa Zauberflöte a William Kentridge, che per un tempo lunghissimo ha cercato le corrispondenze tra la partitura e lo scorrere del tempo, raccordando segni e significati, partendo dal bianco e dal nero, dalla camera oscura che riflette, proietta e rovescia, ma partendo anche da lavagne nere e dai segni bianchi che si possono tracciare sulle loro superfici, fino ad arrivare a un nero che è accecante e vitale. La macchina fotografica ritorna in più momenti forse a simboleggiare il rapporto tra luce e tenebra, tra bene e male e lo stesso spazio scenico diventa una sorta di camera oscura in cui ad essere sviluppata è la stessa vita.
Kentridge tralascia gli interrogativi e le considerazioni politiche e sociali, arrivando a un’opera intrisa di malinconia ma vitale, poetica e struggente, come la vita. Un’opera intessuta di multiformi suggestioni, supportate da una pluralità di livelli semantici, dove significanti e significati si presentano sovrapposti e leggibili, tra le immagini neoclassiche alla Schinkel e le proiezioni animate dello stesso Kentridge.
La scena unica ha le quinte dipinte e pochi meccanismi (due tapis roulant), ma a questa semplicità si sovrappone la complessità di videoproiezioni e disegni luminosi proiettati sulle stesse scene, con un effetto molto poetico e coinvolgente, mostrando in modo struggente il tempo della vita, le mutevolezze della vita, la poeticità della vita. A cominciare dal serpente dell’inizio, che è un’ombra sul fondale che poi diventa un braccio, oppure quando un battito d’ali riempie il palcoscenico, riempie un mondo.
Le immagini di Kentridge, struggenti e poetiche, scorrono così, una dopo l’altra, con l’accompagnamento della musica di Mozart, seducendo e commovendo con dei segni emotivi così intensi ed inattesi da lasciare subentrare l’azione narrativa all’azione pittorica in modo naturale.
Il risultato è uno spettacolo elegante e sofisticato, memorabile, anche grazie ai costumi coloniali di Greta Goiris, un film in cui compaiono simboli massonici ed esoterici, antichità egizie, figure dinamiche di animali (uccelli, ma non solo, leoni, rinoceronti), oggetti inanimati, esplosioni nel passaggio dalla notte al giorno e tanto altro, tra luci e lucine, punti e linee che segnano, sottolineano, si rincorrono.
La direzione orchestrale affidata a Marco Guidarini non ha brillato in maniera particolare soprattutto per la mancanza di vivacità, mentre nel cast si sono segnalati l’ottimo Papageno di Markus Werba, l’intensa Pamina di Angeles Blancas Guilin ed il Monostratos di Steven Cole. Deludente il Tamino “esploratore coloniale” di Steve Davislim, stanco il Sarastro di Matthias Hölle, debole la Regina della Notte di Uran Urtnasan Cozzoli. Sempre bravi i ragazzi del Tölzer Knabenchor, bellissime, eleganti ma forse poco affiatate e troppo simili per vocalità le tre dame, Caroline Stein, Annely Peebo e Annette Jahns. Con loro Panajotis Iconomou, Bernarda Borro, Lorenzo Muzzi, Nicola Pamio e il coro preparato da Marco Ozbic.
FRANCESCO RAPACCIONI
Visto a Napoli, teatro di San Carlo, il 6 ottobre 2006
Visto il
al
San Carlo
di Napoli
(NA)