Con Die Entführung aus dem Serail, ma ancor più con Die Zauberflöte, Mozart prende in mano un genere d'intrattenimento squisitamente popolare e di ridotte pretese artistiche qual'è singspiel, e con il suo enorme talento lo conduce ad un'altezza impensabile. Si era nel settembre del 1791, quando al Freihautheater auf del Wieden – piccola sala teatrale di periferia, posta nel cortile d'uno stabile di abitazioni date in affitto – Emanuel Schikaneder e l'amico Mozart mettono in scena un pastiche esotico che vedeva un improbabile principe giapponese agire in un contesto egizio, tra boschi di palme, effetti magici e palesi richiami massonici; nonché tra giochi di prestigio, scimmie, serpenti e leoni, con cospicuo dispendio di denaro per l'impresario.
D'altro canto, questo era quanto piaceva al popolino viennese d'allora: musica orecchiabile (troppo lusso, magari, le meravigliose invenzioni di Mozart), una parvenza di cultura e schietto divertimento: così se Sarastro ed i suoi diciotto saggi vivono in un mondo astratto e mistico, se le prove del fuoco e dell'acqua richiamano riti arcaici di passaggio a più alte sfere spirituali, dall'altro lato la storia prende un senso più immediato con la figura di Monostatos, il losco guardiano degli schiavi, ma sopra tutto con quella di Papageno, ciarliero e pavido uccellatore: amabile ed ingenua creatura che altro non cerca che buon cibo, buon vino ed una graziosa compagna. Proprio come ogni buon viennese che si rispetti.
Di fatto, Die Zauberflöte si presta, proprio per questa miscellanea di elementi disparati, alle più svariate e contrastanti letture sceniche, da quella ipertradizionale di Ingmar Bergman a quella iperattuale e grottesca di Simon Mac Burney. In questa coproduzione d'autunno tra Opera Festival di Bassano, Teatro Verdi di Padova e Teatro Sociale di Rovigo, il regista Federico Bertolani introduce a sua volta qualche elemento di originalità, ponendone l'apertura in un quartiere malfamato, tra barboni, prostitute, spacciatori e poliziotti violenti (e forse corrotti). Due fidanzatini vi si perdono, e ad un tratto tre delinquenti li aggrediscono: la ragazza riesce a fuggire, il giovane cade a terra esanime. Di qui la realtà trapassa alla magia ed alla fantasia, poiché l'atmosfera diviene alquanto irreale, sospesa in un tempo ed in un luogo, come spiega Bertolani, che appare «incantato, fatto di passaggi segreti, di muri che nascondono realtà altre», dove man mano «appaiono bambini fatati, regine disperate e oggetti prodigiosi». Mentre il suo corpo rimane a terra, lo spirito di Tamino si stacca – lo si comprende perché ora veste tutto di bianco – e si interroga stupito; le tre prostitute si trasformano nelle Dame della Regina della Notte; il barbone, perso il suo lercio cappotto, in un coloratissimo Papageno; ed il drappello degli agenti prende le candide uniformi degli armigeri di Sarastro comandati da Monostatos. Alla fine, dopo aver attraversato tutta la storia, e avendo concluso il suo viaggio verso la conoscenza e la consapevolezza di sé, il giovane si ridesta: Tamino è salvo e ritrova la sua 'vera' Pamina, mentre le cose intorno a lui riassumono il loro normale aspetto. Direi che in base a questa idea, lo spettacolo nell'insieme scorre a dovere, anche perché la narrazione è portata man mano avanti da Bortolani con garbo e tante buone, e funzionali idee; e perché appare ben sostenuto dalle espressive soluzioni sceniche di Giulio Magnetto, piazzate su due sovrapposti piani visivi, ed arricchito dai variegati costumi disegnati da Manuel Pedretti.
L'Orchestra di Padova e del Veneto era sotto la guida del giovane Giuliano Betta: direzione che è apparsa adeguatamente precisa ed elegante, con scelte agogiche rilassate; molto leggera nell'incedere e nel sostenere i cantanti, con cui stabilisce una buona intesa. Direzione decisamente virata verso il regno d' Apollo, direi, a tratti languida e vaporosa all'ascolto benché giudicabile con i limiti di una sala – quella del PalaBassano – sostanzialmente negata alla musica. Nondimeno, fatta la tara di ciò, e superata qualche timidezza iniziale nell'Ouverture, la Marcia dei Sacerdoti, tutto il luminoso Finale primo, il Corale, le prove del fuoco e dell'acqua sotto la sua bacchetta suscitano buona impressione. Il tenore Fabrizio Paesano affronta con qualche timidezza, un certo manierismo e con poca espressività di colori – vedi la freddezza dell'Aria del ritratto - la parte di Tamino, che risulta nell'insieme un po' ingessata; il soprano Ekaterina Sadovnikova infonde nella sua Pamina un timbro luminoso e pieno, delicate sfumature e affettuosa condotta di canto; e per questo, stravince la prova della struggente sentimentalità di Ach, ich fühl's. Del baritono Dario Gorgelé abbiamo apprezzato la spigliata recitazione, la simpatica bonomia e l'estroversa, espressiva vocalità con le quali risolve il suo Papageno, da Der Vogelfander bin ich ja sino al tenerissimo avvilimento di Papagena! Papagena!; la spigolosa Königin di Sofia Mchedishivili non suscita grandi entusiasmi, per la pochezza della voce e l'incerto fraseggio; solido e ben calibrato, nel brunito colore e nella varietà di accenti richiesti dal personaggio - malinconia, autorevolezza, partecipazione emotiva sono tutte presenti nel momento di In diesen heil'gen - il Sarastro del basso Abramo Rosalen; corretto nell'insieme, ma non abbastanza incisivo il Monostatos di Patrizio Saudelli; anche il terzetto delle Dame - composto da Alice Chinaglia, Cecilia Bagatin, Alice Marini - appare ben assortito. Nelle parti di contorno, il nobile Oratore di Paolo Battaglia, la graziosa Papagena di Teona Dvali, i due sacerdoti e i due armigeri interpretati da Luca Favaron e Romano Franci. Il Coro Lirico Veneto Li.Ve. diretto da Sergio Balestracci si mostra all'altezza del suo compito, anche se O Isis und Osiris difetta un po' della giusta solennità; inqualificabile, ahimé, per scarsa intonazione e flebile emissione il trio dei fanciulli (Elena Roversi, Giulia Moretto, Elena Fontolan).
Alla fine, un suggerimento: mozartianamente parlando, nella storia di Bassano Opera Festival Il flauto magico prima d'ora s'era visto nel 1994 e nel 1996. Don Giovanni è andato in scena, dal 2000 al 2012, per ben quattro volte, mentre Così fan tutte è arrivato per la prima volta l'anno scorso.
Mi pare giusto che tocchi a Le nozze di Figaro, una delle prossime stagioni.