Il rinnovato programma di sala dell'Opera di Roma registra i precedenti dell'opera nella capitale: soltanto sette. Necessario quindi riportarla al Costanzi: scelta azzeccata, visto l'affollamento al botteghino e il bell'allestimento scelto.
Lo spettacolo di David McVicar fu creato per Covent Garden nel 2001 e lì ripreso più volte, ma mai esportato. Una novità, dunque. Il regista elimina totalmente ogni richiamo a simboli massonici ed esoterici, ogni riferimento all'oriente e alla magia. Il flauto magico diventa un percorso dalle tenebre dell'ignoranza e della superstizione alla luce della conoscenza: l'alba di un nuovo mondo all'insegna della conoscenza e della dignità. Valori che identificano l'uomo. E che McVicar ritrova nell'Europa dell'Illuminismo.
Le scene di John Macfarlane sono un interno di palazzo grigio ed austero, alti muri percorsi da lesene e archi ciechi che rimandano a fine Settecento, alla transizione tra barocco e neoclassicismo. Settecenteschi anche i costumi dello stesso Macfarlane, tranne Papageno e compagna in abiti contemporanei in quanto figure “fuori dal tempo” (indimenticabile l'abito stazzonato di Papageno, il cappello di lana con la papera sopra, il gilet asimmetrico). In uno spettacolo ambientato in un interno e dominato dalle tinte notturne sono fondamentali le luci di Paule Constable. Completano la locandina le coreografie di Leah Hausman.
McVicar presenta da subito Tamino e Papageno come uomini, semplici e genuini. Uomini nella loro umanità, debolezza, limitata e limitante corporeità. Uomini in un momento della storia che si percepisce essere “alba” di un nuovo mondo. Lo spettacolo va verso la luce, come indicano le comparse che, durante l'ouverture, entrano in platea con globi illuminati in mano che fiocamente risplendono nel buio della sala. Quelli che dovrebbero essere “trucchi” scenici sono risolti con trovate da commedia dell'arte: il serpentone mosso da mimi, la papera attaccata alle scarpe di un mimo che Papageno cerca di ficcare in gabbia, la vettura alata dei tre fanciulli, le coppie di animali incantate dal flauto sono esseri con corpi umani e teste in cartapesta di animali. Coppie di animali, si diceva: e due coppie (di umani) sono i protagonisti, Tamino e Pamina, Papageno e Papagena.
Il giovane americano Erik Nielsen dirige con tempi lenti, i suoni sono avari di colori e la partitura in più punti rasenta la noia; da segnalare che è il maestro stesso a suonare il cembalo.
Buono il cast. Su tutti il Papageno di Markus Werba, ruolo frequentato da anni e particolarmente congeniale: il baritono ha voce di splendido colore, nitido e luminoso, resa con emissione fluida e omogenea; un Papageno non rustico ma neppure inutilmente comico: un uomo, tenero nella sua ricerca di una compagna e della serenità coniugale quotidiana (il suo ingresso in scena è uno dei momenti più lieti dello spettacolo). La sua Papagena è una provocante Sibylla Duffe, tacchi alti e minigonna, pellicciotto e sigaretta: una vamp che impaurisce il timido Papageno (il libretto di Schikaneder viene adattato). Splendidi il Tamino giovane e imberbe di Juan Francisco Gatell dalla voce luminosa e la Pamina di Hanna-Elisabeth Müller, dolce nell'aspetto, solida e armoniosa nella voce. Detlef Roth è un Oratore di gran classe, meno ha convinto vocalmente il Sarastro di Peter Lobert, a cui sono affidati dal registra frammenti della Tempesta shakespeariana. Non sempre nel giusto rilievo le tre dame: Sara-Jane Brandon, Romina Tomasoni e Nadežda Karyazina. Molto attese le due arie della Regina della Notte: Audrey Luna sostituisce all'ultimo minuto la prevista Sabirova e i suoi acuti sono piuttosto aspri. Giusto il Monostatos di Kurt Azesberger. A completare il cast Saverio Fiore, Michael Kranebitter, Pasquale Faillaci (i tre sacerdoti), Flavia Scarlatti, Maria Elena Pepi, Emanuela Marzi (i tre fanciulli), Alexander Kaimbacher, Scott Wilde (i due armigeri).
Il coro è stato ben preparato da Roberto Gabbiani.
Teatro esaurito, pubblico soddisfatto, molti applausi.