Dopo l'avventura memorabile, in termini di consensi di pubblico e critica, della “trilogia dapontiana” Don Giovanni, Le nozze di Figaro e Così fan tutte messa in scena a Venezia tra il 2010 e il 2012, il binomio formato dal regista Damiano Michieletto e dal direttore Antonio Manacorda è trionfalmente ritornato alla Fenice in chiusura della fine stagione 2014-2915, per consegnare un nuovissimo allestimento della Zauberflöte prodotto in partnership con il Maggio Musicale Fiorentino. In tanti anni di frequentazione dei teatri, di versioni di questo capolavoro mozartiano ne abbiamo viste di ogni genere, ora tradizionalissime ora ipermoderne tipo quella presentata nel 1999 sempre a Venezia da Stéphane Braunschweig, imperniata sull'uso di telecamere che seguivano i personaggi vaganti nei retro scena del Palafenice. Ma questa nuova Zauberflöte veneziana è uno spettacolo che pare aprire un capitolo a parte, e val la pena di raccontarla magari solo per sommi capi; perché è talmente disseminata di tracce, di indizi, di suggerimenti che descriverla in ogni dettaglio ci porterebbe troppo lontano.
Intanto, esotismi ed esoterismi presenti nel libretto di Schikaneder sono volutamente ignorati dal regista veneziano, a favore di un'atmosfera che pare oscillare, con felice ironia, tra Freud ed il più sapido naturalismo: siamo trasportati infatti in un'aula scolastica, forse in un convitto d'altri tempi del quale Sarastro è il compassato preside, nemico risoluto dell'ignoranza e dei dogmi del passato, l'Oratore ed i Sacerdoti severi insegnanti attorniati da alunni in grembiule, colletto bianco e calzoncini corti. Papageno è il bidello in camice blu, uomo semplice e mite capace però di colloquiare con la Natura, facendo da tramite tra questa ed il Sapere che intride quegli austeri ambienti. Un'enorme lavagna domina l'aula, piena all'inizio di formule chimiche e matematiche; poi si riempirà ora di misteriose frasi latine, ora di disegni d'ogni genere, sollevandosi di tanto in tanto per rivelare dietro altri diversi contesti: la stanzetta di Pamina, candida ed ordinata, il Tempio di Sarastro rappresentato da una foresta incantata abitata da eteree ninfe, dove se non si ha una guida sicura è facile perdersi; od ancora lo spazio irreale d'un sogno animato da strani, candidi esseri con la testa d'animale. Tamino, che è un alunno un po' indolente e riottoso, cancella rabbiosamente le nozioni riportate sulla lavagna; ma al loro posto appare d'improvviso il feroce serpente che l'atterrisce; da qui inizia il suo percorso di crescita, che terminerà con l'acquisizione della piena consapevolezza dell'età adulta. Le Tre Dame sono giovani suore, simpatiche ma un po' ninfomani, la Regina della Notte un'insegnante nevrotica, piena di conflitti interiori; ed ovviamente è una madre possessiva che, se da un lato coccola la figlia, dall'altro la strapazza e ne mortifica la femminilità tagliandole i capelli. Si intuisce subito che la sua negatività è chiaramente quella della Superstizione che ostacola la Vera Sapienza. Pamina è una scolara timida e paurosa, dalla personalità ancora tentennante: sente lo slancio erotico verso Tamino, ma sul suo lettino tiene ancora delle bambole. E Monostatos? E' un arrogante ed adiposo bulletto in piena tempesta ormonale, che tormenta Pamina con stupidi scherzacci; prepotente coi compagni, alla fine Sarastro lo scopre mentre sta per dare fuoco ad una catasta di libri, e con una tirata d'orecchi lo costringe a rientrare nei ranghi. Anche Papagena è una bidella, dapprima ovviamente vecchiotta, poi una florida ragazzotta che sforna subito quattro pargoletti pure loro in camice blu, subito pronti a spazzare la scuola con tanto di piccolissima scopa. E per finire i Tre Geni ci sono mostrati in veste di piccoli e dispettosi folletti, con elmetto da minatore sempre acceso: forse perché aiutano i protagonisti a scavare dentro di sé, suggerendo modi e mezzi per ottenere una conoscenza consapevole. Va da sé che le tre prove imposte sono di conseguenza altrettanti esami scolastici, quasi dei test attitudinali indispensabili per progredire verso la maturità e verso un pensiero consapevole. Concludendo, non vi è dubbio che il risultato finale del lavoro di Michieletto - che si è avvalso stavolta anche della collaborazione registica di Philipp M. Krenn – appare eccellente sotto tutti i punti vista: in questo Flauto magico teatralità di altissimo livello, distribuita in un racconto originale e pieno di continue sorprese, che procede agile ed arguto fra tante felici intuizioni, e per questo risulta avvincente e di fortissima presa sullo spettatore. Ma che, soprattutto, segue ed asseconda senza fallo ogni singolo episodio musicale della partitura mozartiana. E non vogliamo certo mettere in secondo piano quello che la sottende: le geniali scene di Paolo Fantin, gli indovinati costumi di Carla Teti – due artisti coi quali Michieletto forma un team assai affiatato - nonché i giochi di luce studiati da Alessandro Carletti, e le immagini video appositamente create da Carmen Zimmermann.
Tale fuoco d'artificio di idee e di invenzioni avrebbe potuto porre in secondo piano la musica, se la Fenice non avesse radunato in queste recite di fine ottobre un cast veramente di prim'ordine. Per una volta, abbiamo trovato un Tamino praticamente perfetto nella persona di Antonio Poli: timbro chiaro e luminoso, notevole freschezza e spontaneità, intonazione esemplare, accorta ricerca di sfumature, condotta di canto immediata ed espressiva sina dall'esordio di «Dies Bildnis ist bezaubernd schön». Difficile avere di più. Ed anche Alex Esposito può vantarsi d'essere, da parte sua, un Papageno ideale come pochi altri: primo, per la padronanza scenica da consumato attore e la spontanea comunicativa; secondo, perché la linea di canto seduce in ogni frangente per musicalità, eleganza di fraseggio e ricchezza espressiva. Olga Pudova padroneggia la parte della Regina della Notte e la sua tessitura siderea senza problemi tecnici, ma anche senza dar l'aria di voler strafare; riesce in tal modo a raggiungere due obiettivi: non solo a cantare con elegante scioltezza «Der Hölle Rache kocht in meinem Herzen», ma pure a conferire quegli accenti di pateticità materna che sono indispensabili alla prima delle sue arie, «Zum Leiden bin ich auserkoren». Significativa la Pamina di Ekaterina Sadovnikova: la sua è una fanciulla patetica ma non lagnosa, sostenuta da una vocalità vellutata, salda e mai monotona, tecnicamente matura e completa. Goran Jurić è un Sarastro impressionante, capace di sostenere senza difficoltà le disagevoli note estreme del ruolo, sia in alto che in basso - «In diesen heil'gen Hallen» è una delle più deliziose e impegnative arie per basso mai scritte - senza perdere né in eleganza né in spessore, esibendosi per di più formidabili legati che esaltano la bellezza del suo timbro bronzeo. Gustosissimo il Monostatos di Marcello Nardis, un irresistibile monellaccio che però non trascura né precisione né scioltezza di canto; assai ben caratterizzata la Pamina di Caterina di Tonno; ottime sia vocalmente che in scena come scatenate suorette, le Tre Dame (Cristina Baggio, Rosa Bove, Sivia Regazzo); Michael Leibundgut era l'Oratore ed il Sacerdote; William Corrò e Federico Lepre davano voce ai due sacerdoti e ai due armigeri. Intonatissimi (finalmente!) ed assai disinvolti i Tre Fanciulli, impersonati da giovanissimi e bravi solisti inviati dal Münchner Knabenchor.
Ho lasciato per ultima cosa - ma solo per sottolinearne la fondamentale importanza - la concertazione di Antonello Manacorda, un direttore che pare avere un indubbio feeling con le partiture mozartiane, come abbiamo potuto constatare già nei precedenti esperimenti veneziani. Lo sta a dimostrare, ancora una volta, innanzitutto il non comune equilibrio tra strumenti e cantanti, coi quali ha saputo trovare perfetta sintonia, e poi quel senso di teatralità fresco ed immediato trasmesso mediante una direzione leggera, spedita, dal felice estro narrativo; una direzione insomma coerente nello stile e molto chiara nelle linee musicali, sempre attenta a mettere in luce ogni dettaglio timbrico e strumentale. Lo segue fedelmente e senza sbandamenti una compagine orchestrale – quella della Fenice – dai suoni tersi e brillanti, con prime parti tutte all'altezza del compito. Inappuntabili tutti gli interventi del Coro preparato da Ulisse Trabacchin.
Successo caldissimo di pubblico, che ha donato lunghi applausi a tutti gli interpreti.
(foto di Michele Crosera)