Lirica
DIE ZAUBERFLOTE

Una casa di bambole per Tamino e Pamina

Una casa di bambole per Tamino e Pamina

Die Zaubeflöte mancava sulle scene triestine da troppo tempo ormai. Era infatti il 1997, quando le maestranze del Teatro Verdi la mettevano in scena alla Sala Tripcovich: trasferta inevitabile, perché non erano ancora terminati i lavori di restauro ed adeguamento dell'antico edificio teatrale che ospita il più bel teatro della capitale giuliana. E per riportare vent'anni dopo il capolavoro mozartiano nuovamente sulle Rive, la Fondazione Verdi ha messo in piedi un allestimento tutto nuovo in collaborazione con la Sawakami Opera Foundation, affidandolo alla regista argentina Valentina Carrasco - una delle anime dell'estroso collettivo La Fura dels Baus - ed allo scenografo catalano Carles Berga. Il medesimo tandem, molto affiatato, che ha firmato nel giugno 2016 all'Opera di Roma Proserpina di Wolfgang Rihn.

I due cast presenti in cartellone stavano sotto la vigile guida di Pedro Halffter Caro, quarantacinquenne direttore madrileno che tra non molto, cioè a metà febbraio riaffronterà nuovamente Il flauto magico a Siviglia con la regia di Roberto Andò. Ed il suo talento ci ha offerto quanto ci aspettavamo, vale a dire una visione levigata ed impeccabile della partitura; e nell'insieme, una direzione segnata da sobrietà e senso della misura, sempre molto vigile sul lavoro dei cantanti, e in grado di trovare perfetta intesa con i bravissimi componenti dell'Orchestra del Verdi – formazione sempre in crescita - dai quali ha ottenuto limpidezza di esecuzione ed un'apollinea leggerezza. Però avremmo auspicato una maggiore varietà di colori, qualche guizzo di fantasia, qualche giusta enfasi in più perché la sua lettura iperclassica – più simile al procedere di un bravo kappellmeister teutonico - pareva sottrarsi a quei sotterranei fremiti drammatici che trapuntano questa estrema partitura mozartiana.

Nella recita da noi raggiunta agiva il secondo cast, capitanato dal Sarastro – andiamo in ordine di locandina - scarsamente incisivo esibito da Peter Naydenov. Il basso bulgaro, al suo debutto in Italia, non eccelle però né in «O Isis und Osiris», né al momento di intonare la solenne «In diesen heil'gen Hallen» per modestia di mezzi – vero basso profondo non mi pare – per qualche incertezza d'intonazione e comunque per la poca autorevolezza data al severo sacerdote. Il giovane tenore ateniese Vassilis Kavayas porta avanti il suo Tamino con grazia e lodevole buon gusto, facendo forza non tanto sul peso in sé della voce (piccola, in verità, benché piacevolmente chiara nel timbro e tenuta salda sul registro centrale, due cose necessarie a questo ruolo) quanto sulla correttezza tecnica e sulla freschezza dell'emissione, omogenea nella gamma. Motivi per i quali guadagna, col suo «Dies bildnis», un gratificante applauso del pubblico. Le stesse doti le ritroviamo nella sua partner sulla scena, il giovane soprano Lucrezia Drei, Pamina minuta ma graziosa nella figura, che si presenta con un'attraente linea di canto, fraseggio appropriato e sfumature di morbida dolcezza, presenti anche nei momenti - come in «Ach, ich fühl's» - in cui deve esprimere tutta la sua angoscia amorosa. Il soprano ucraino Olga Dyadiv è anch'essa un nome nuovo per noi: nell'altro cast figura come Prima Dama, in questo le viene affidato il più impegnativo ruolo della Regina della Notte. Tra le sue mani, personaggio che appare un po' opaco e privo di vero carattere, con agilità che richiedono troppa rincorsa in «O zittre nicht», e colorature e picchettati non tutti cristallini in «Der hölle rache». Il nostro Dario Giorgelè ha saputo dare vita ad un Papageno frizzante e simpatico, ben caratterizzato anche nel caldo timbro baritonale poggiante su d'una salda colonna di fiato. Un Papageno sempre suadente in scena, sin da quel irresistibile biglietto da visita che è «Der Vogelfänger bin ich ja», da lui ammanito con franca birbanteria. Un po' meno a proprio agio si mostra Lina Johnson nel personaggio di Pamina: ben risolto dal lato attoriale, senza dubbio, ma la cui tessitura ci pare le stia talvolta un po' stretta. Impeccabile dal punto di vista vocale, e condotto senza troppi eccessi caricaturali il Monostatos del bravo tenore giapponese Motoharu Takei; più che corretto l'Oratore di Horst Lamenek, attraente e ben amministrata sonorità di basso; accortamente composto il trio delle Dame formato da Rinako Hara, Patrizia Angileri, Isabel De Paoli; calibrati ed efficaci gli interventi di Giuliano Pelizon e Francesco Paccorini nelle vesti rispettivamente di Primo e Secondo sacerdote, e di Secondo e Primo armigero. Al posto delle petulanti (e, almeno qui da noi, spesso scarsamente intonate) voci bianche che vengono generalmente impiegate per i Tre Fanciulli, si è operata la saggia e condivisibile scelta di consegnarli a tre voci femminili, in questo caso quelle del soprano Vania Soldan, del mezzosoprano Simonetta Cavalli, dell'alto Elena Boscarol. Brave nel recitare, musicalmente impeccabili e provenienti – come l'Angileri, Pelizon e Paccorini – dalle fila dell'eccellente Coro del Teatro Verdi, ora nelle mani di Francesca Tosi. Rispetto alle previsioni, ci sono stati non pochi cambiamenti in locandina, compreso quello del direttore (Gelmetti, in origine). A conti fatti, il primo cast vedeva il Tamino di Merto Songu, la Pamina di Elena Galitskaya, la Regina di Katharina Melikova, il Papageno di Peter Kellner.

Ed ora parliamo dello spettacolo in sé. Un titolo come Die Zaubeflöte pare un invito a nozze per scatenare l'immaginazione dei registi: vero è che questo singspiel – vetta di genere destinato al facile divertimento popolare - tra le mani di Schikaneder e Mozart finisce per trasformarsi in qualcosa di più e di diverso da una semplice zauberoper. Vale a dire in uno spettacolo quasi “serio”, in bilico tra il fiabesco e l'esoterico, animato da un meccanismo meraviglioso, articolato e complesso nei significati: taluni palesi, altri più o meno celati e decifrabili. Però la Carrasco si è spinta avanti al punto da ispirarsi nientemeno che a Nietzsche ed alla sua concezione di una divinità infantile e volubile che pensa ed agisce a caso, senza etica e senza morale. Ed ha portato sulla scena del Verdi due bambini, che potrebbero essere Isis/Luna e Osiris/Sole, come ci suggeriscono le sue note di regia; fanciulli che divertendosi con i loro bambolotti – in grande divengono i vari personaggi del Flauto magico - sbrigliano la loro immaginazione senza freni né inibizioni. E, va da sé, con un pizzico di fanciullesco sadismo. In tal modo i due divengono il capriccioso propulsore della vicenda che si dispiega davanti a noi, procedendo secondo le loro bizzarrie.

Di qui, l'idea della gigantesca casa da bambole a tre piani disegnata da Carles Berga, arredata di tutto punto in ogni stanza e pronta a spalancare le sue pareti ora qua ora là, secondo quanto suggeriscono le didascalie. Di qui, i costumi approntati con fervida inventiva - e una buona dose di eccentricità - da un altro abituale collaboratore della Carrasco, Nidia Tusal: la Regina che pare Morticia Addams, le tre Dame in abiti vagamente hippies, i tre fanciulli abbigliati come i giocattoli della disneyana Toy story (ranger, sceriffo & marinaretto), strane divise nere con vistose finte cuciture per Monostatos e suoi soldati, curiosi completi grigi e buffe bombette per i sodali di Sarastro. Quanto alle trovate registiche, inserite in un contesto che appare tutto sommato godibile, qualcuna appare ensata e convincente. In questo conteggio mettiamo, per esempio, come durante l'ouverture si mostri la fine del padre di Pamina, che prima di morire consegna a Sarastro il Cerchio del Sole, e poi impone il binforcando una bicicletta, carico di spolverini di piume, mentre Papagena lavora come colf nel Palazzo Egizio; la Regina che per intimare l'eliminazione di Sarastro alla figlia, stesa nel lettino della sua cameretta tutta rosa, è costretta a parlarle da una cabina telefonica; Sarastro presentatoci nei panni di un austero professore di chimica, attorniato in laboratorio dai suoi assistenti.

Altre cose sono meno comprensibili, se non addirittura velleitarie: come i tre genietti mutati in orribili bambolotti dalle movenze meccaniche; le prove iniziatiche del fuoco e dell'acqua trasformate in turpi torture (scosse elettriche per l'una, annegamento per l'altra, si intravedono attraverso un gioco di ombre cinesi) indotte dai due bambini che, con spensierata crudeltà le esperimentano sui propri pupazzi; le apparizioni lampo in scena d'uno stralunato Superman, per un'altra imprevedibile mossa dei bambini; il sonoro colpo di padella – niente lance d'argento in mano alle Dame – per far secco il serpente. Ma sopra tutto appaiono fuori luogo le ronde delle tre agenti della “Polizia Femminista Triestina” pronte ad elevare contravvenzioni a chi pecca – seguendo un libretto di oltre due secoli fa - di presunto maschilismo verbale. Insomma, questa è una regia con molte luci e molte ombre – più le seconde che le prime, direi – cui molto gioverebbe una maggiore calibratura. Ci dicono che alla prima la Carrasco sia stata contestata dal pubblico, ed abbia reagito in modo poco signorile. Più logico sarebbe dar qualche ascolto alle critiche, perché il pubblico non è tutto di cretini; e ripensarla per altre occasioni – altri l'hanno fatto – darebbe modo di distillare quel miglior spettacolo che sotto sotto si intravede.

(foto Visual Art)
 

Visto il 21-01-2017
al Verdi di Trieste (TS)