Le Baccanti di Euripide è una delle tragedie più difficili da restituire alla contemporaneità per il portato complesso di discorsi sottesi che intraprende mentre racconta una storia che solo all'apparenza costituisce un monito al rispetto delle divinità.
A ben vedere infatti Euripide, nel mostrare la spietatezza di Dioniso, la cui furia contro chi ha messo in discussione le sue origini divine non si ferma nemmeno davanti donne e bambini, compie una critica feroce alla divinità e a tutto il sistema religioso.
La tragedia presenza novità anche dal punto di vista formale annoverando la presenza della divinità (sotto spoglie umane) sin dal suo incipit, costituendo un testo che offre diversi spunti esegetici e di messinscena.
Daniele Salvo, che oltre a firmare regia e la riduzione del testo interpreta anche Dioniso, ne trae Dionysus il dio nato due volte facendone una lettura poco interessata alle questioni esegetiche e metateatrali vedendone più un'occasione per allestire una macchina scenica grandguignolesca, al servizio della verve attoriale sua e degli altri e altre interpreti.
Salvo approccia il testo da un punto di vista emozionale, cercando di contrapporre l'emotività irrazionale dell'eccitazione dei sensi dati dalla furia dionisiaca, cui riduce il testo di Euripide, alla nostra contemporaneità anestetizzata e priva di emotività, come dichiara nelle note di regia.
Il risultato, con tutto il rispetto per lo sforzo produttivo, per la cura dell'allestimento scenico e dei costumi e per la presenza sulla scena di Emanuela Kustermann, non convince sotto diversi punti di vista.
La furia irrazionale e numinosa di Dioniso e delle Baccanti viene portata sulla scena non per presentare al pubblico una problematicità com'è tipico della tragedia Attica, o per raccontare una storia altra e incuriosire chi guarda mentre constata differenze e similitudini con la propria cultura, il delirio bacchico è al servizio di una una messinscena spettacolare e autoreferenziale, nella quale le emozioni non sono vissute dai personaggi ma mostrate.
La recitazione è imbastita su un registro eccessivo, a tratti urlato, che non conosce variazioni o evoluzioni dei personaggi, se non psicologiche, almeno emotive, tradendo un piacere smaccato per lo stare in scena non tanto al servizio del personaggio ma della recitazione stessa.
Unica eccezione Manuela Kustermann che riesce senza enfasi, senza strillare, con una forza immensa, a restituire tutto lo sgomento di quando Agave realizza di avere decapitato suo figlio Penteo nella furia dionisiaca.
Salvo sembra preoccuparsi più della gestione coreografica degli e delle interpreti (come le continue cadute a terra di praticamente tutti i personaggi) che delle emozioni che dovrebbero portare a quei movimenti.
La macchina scenica, semplice ed elegante anche nell'uso delle videoproiezioni (che ci pare contraddicano però l'intento dichiarato nel programma di sala di non voler impiegare elementi spettacolari esibiti) si sbilancia troppo verso un naturalismo scenico (il sangue di cui è lorda Agave) e indulge anche in una nudità (le baccanti a seno nudo) poco dionisiaca e più vicina a certo immaginario erotico maschile, e maschilista, contemporaneo, specialmente negli accenni orgiastici che si riducono a un autoerotismo esibito e a una allusione al sesso fra donne pensato e presentato a uso e consumo del pubblico maschile.
Dionysus rimane uno spettacolo squisitamente legato alla nostra contemporaneità così poco interessata alla Storia e tutta incentrata in un sincretismo appiattito su un eterno presente nel quale la tragedia Attica viene affrontata disinvoltamente con un immaginario collettivo impoverito come quello occidentale del terzo millennio.