E' il primo sguardo che ci muove sul palcoscenico, quello dello schiavo, il moro, del pittore Velasquez. Non appena si apre il sipario, si alzano le luci in scena, non appena si rendono distinguibili le figure dei protagonisti – lei, la moglie, la pittrice, lo sguardo, lui, il marito, il modello, l'osservato – ecco, in questi flussi direzionali di attenzioni e interpretazioni, in questo gioco di rimandi tra significante e significato, si apre un dramma, il dramma, quello di Disgraced.
Da lì, tutti gli altri personaggi, i comprimari: il nipote, la collega/rivale, il cinico gallerista, poi rivale in amore. Da lì il loro agire non fa altro che stringersi, come un giro di vite, sul conflitto principale: tra chi guarda e chi è guardato.
Un eroe dei nostri tempi
Nato in America, cresciuto e diventato adulto lì, da madre e padre pakistani, il nostro protagonista vive ogni giorno proiettato al presente, al futuro. Quasi subito tradisce di avere poca confidenza col passato, quel passato scomodo, ingombrante, quel passato così pieno di “Islam” a cui si sente tanto ostile e quasi subito lo spettatore intuisce che questo alimenterà in larga misura la macchina del crescendo drammatico, la discesa dell'eroe verso l'inferno.Perché se il protagonista è un uomo senza passato, così non è per i suoi colleghi – amici o presunti tali – che, nell'America sconvolta dalla paura del terrorismo, sono sempre pronti a scavare: una parola, un gesto, un'intenzione, un'incrinatura anche minima, un sospetto, che faccia dello straniero un nemico, un avversario, un bersaglio da abbattere.
Così è per il nostro protagonista e per la sua bella moglie pittrice, così impegnata a guardarlo, così poco capace di capirlo. In questa dicotomia, appunto, si consuma la tragedia: l'uomo così amato per la sua diversità, il suo esotismo, è al contempo troppo impegnato a rappresentarsi conformato, uguale, occidentale. Ma questa rappresentazione non convince, non rassicura, è scardinata e si scardina nel crescendo degli eventi. L'uomo non è creduto, conosce il sospetto, l'isolamento, la menzogna. Da eroe diventa antieroe, cioè appunto, eroe del nostro tempo.
L'arte, il simbolo, l'oggetto
Disgraced è una bella opera corale che lavora scavando e mettendo in luce le singole personalità dei suoi protagonisti; oltre agli attori in scena, in una scelta accattivante e interessante, un ruolo cruciale è giocato dall'arte. L'arte dei mille rimandi e delle rappresentazioni, dall'arte islamica, vera e propria fonte d'ispirazione per la moglie del protagonista, alla pittura di Velasquez, passando dal Rinascimento italiano all'impressionismo francese. L'arte delle immagini e dei simboli attraversa tutta l'opera, proprio come quello schermo bianco alle spalle degli attori, il diaframma di ombre e fantasmi oltre il quale si consumerà il tragico destino dei personaggi, un po' come avviene per lo sparo de Il giardino dei ciliegi, o l'uccisione dei figli in Medea.
In tutto questo gioco di rimandi, Disgraced si propone allo spettatore come un'opera riuscita e godibile, frutto di un sapiente lavoro drammaturgico e di un accurato studio registico, in cui la recitazione convince ma non entusiasma. Resta la storia, a tenerci incollati alle poltrone, a farci riflettere – tremare forse – su un tema che ci ripugna e ci appartiene allo stesso tempo: la tolleranza verso l'altro, il non accettato, il diverso, ciò in cui non ci riconosciamo eppure così intimamente, a volte, ci somiglia.