Un monologo in veste di conferenza, o viceversa

Un monologo in veste di conferenza, o viceversa

A Teatro Zeta, Pino Micol ha festeggiato 40 anni di carriera proponendo un suo vecchio cavallo di battaglia: Divagazioni e delizie, di John Gay.
Pino Micol e Oscar Wilde fanno ormai parte del bagaglio artistico-culturale di Teatro Zeta. Ricordiamo infatti che Pino Micol è il regista di uno spettacolo prodotto dal teatro aquilano ricavato dal più famoso romanzo di Wilde, Il ritratto di Dorian Gray.
Questa volta, invece, Micol ci ha presentato proprio la figura del più famoso dandy al mondo: l’irlandese Oscar Wilde.
Il testo, come ci ha avvertito l'attore-regista, più che un monologo è una conferenza.
Infatti l’autore, John Gay, sceneggiatore statunitense, negli anni ’70 ha ricostruito (e proposto con successo a Broadway) come sarebbe stata una delle tante conferenze che Wilde tenne a Parigi a cavallo tra il XIX ed il XX secolo.
Il testo non racconta la trama dei suoi romanzi, testi teatrali e poesie e neanche ce ne ricorda i titoli, semplicemente ci passa attraverso, eviscerandone le massime più famose (che tutti conosciamo più per averle lette negli incarti di una nota marca di cioccolatini che non perché le ricolleghiamo ad un’opera ben precisa) e che sono servite a ricostruire la vita dell’affettato, scandaloso, perverso artista. Daltronde <<Esperienza è il nome che gli uomini danno ai propri errori>>.
E la cosa è tanto più interessante per il fatto che l’artista parla di sé raccontando solo qualche aneddoto, infarcito da regole di vita esposte con la saggezza letteraria del suo filosofismo estetico dandy.
La ricostruzione del personaggio non era tanto fisica (Pino Micol è fisicamente diverso da Oscar Wilde), ma la bravura di un attore non sta solo nella fisionomia, quanto piuttosto, nella recitazione ed anche nella gesticolazione adatta al personaggio; per esempio i suoi movimenti del polso (e della mano) sinistro, a sottolineare i discorsi e le affermazioni, come un direttore d’orchestra delle proprie opinioni.
I temi che ha trattato sono stati i più disparati: amore, amicizia e inimicizia, giovinezza, Natura, arte, poesia e Chiesa. Certo non poteva mancare la sua nota omosessualità, ma ne ricostruisce sia l’inizio, in un compagno di scuola, che, poi, il dolore della seguente condanna al carcere (duro per lui come per gli altri ospiti, bambini compresi, e per gli stessi carcerieri, costretti a seguire regole spesso non amate ed incivili), a causa di cui ha anche avuto dei problemi di salute.
Le Divagazioni e delizie di Oscar, infatti, partendo dai viaggi in America (Cascate del Niagara e Far West) seguono un climax sempre più tragico, tanto che nel finale si trasformano sempre più in dolori dell’anima e del corpo. Il bello è che lo fa invitandoci a riflettere. Per esempio ci ricorda che <<Il problema dell'umanità è che si prende troppo sul serio><il problema="" dell'umanità="" è="" che="" si="" prende="" troppo="" sul="" serio="">>.
Lo spettacolo è stato in due tempi, interrotti dal bisogno di Oscar dell’assenzio, un lusso a cui lui, dandy per antonomasia, non poteva certo rinunciare.
Nella prima parte, tra il comune essere umano divertito e il filosofo estetico, Wilde ha parlato dei suoi viaggi e delle menzogne della razza umana (a cominciare dai politici per continuare con gli avvocati e i giornalisti), contrapponendola alla bellezza dell’arte, della poesia e della natura (e facendoci notare che la nebbia londiense è sempre esistita, come anche i bei tramonti, prima ancora che Turner li dipingesse), ed esponendo le sue idee sul teatro (attori da sostituire con marionette, i loro vizi, gli impresari e pure i critici). Nella seconda parte, invece, la sua figura si è fatta più cupa e dolorosa, tanto da raccontarci la sua malattia, la paura che governa le cose umane, il suo narcisismo ed i suoi amanti omosessuali.
La scenografia era semplice e studiatamente asimmetrica: partendo dalla parte sinistra del palcoscenico, infatti, erano posizionati un tavolinetto (con una bottiglia d’acqua ed un bicchiere, tipici dei conferenzieri), seguiti, alla loro destra da un ampio leggio; ed entrambi erano ricoperti da un drappo nero (che cadeva a ricoprire anche il palcoscenico). Anche l’abbigliamento di Micol era scuro. Il tutto era illuminato da un faro diretto.
L’unico elemento di colore era sulla parte destra del palcoscenico che, per artistico contrasto, non era illuminata direttamente, ma la luce vi arrivava per riflesso; in essa campeggiava un grande manifesto verde, nel quale si leggeva il nome di Sebastian Melmoth, “nome d’arte” che, in Francia, si era dato Oscar Wilde negli ultimi anni di vita per non far scandalizzare tutti coloro che, involontariamente (come i postini) venivano a contatto con lui e che conoscevano il suo vero nome le sue passioni.
La serata si è conclusa con una targa consegnata a Pino Micol e con la promessa, da parte del direttore artistico di Teatro Zeta, Manuele Morgese, di organizzare una retrospettiva degli spettacoli fatti alla Rai da Pino Micol.