IL MONUMENTALE DON CARLO:
L’UTOPIA DI UN MONDO MIGLIORE
Don Carlo, dopo un iniziale favore (debutto a Parigi nel 1867, cinque atti in francese), ha subito un lungo oblio nei programmi dei teatri di tutto il mondo e la sua rinata fortuna risale agli anni Trenta del Novecento nell’area tedesca, senza però diventare, neppure oggi, un titolo “popolare”, non certo per lo scarso seguito del pubblico, quanto per le oggettive difficoltà legate alla sua produzione. Infatti l’opera è monumentale nella durata (quasi sei ore), nella partitura e nell’allestimento, poiché richiede masse artistiche poderose e una compagnia di canto vasta e di eccezionale livello, sei ruoli principali e principeschi. Ma Don Carlo è un punto di arrivo nell’evoluzione del linguaggio drammaturgico verdiano, un unicum che non trova un corrispettivo in nessun altro lavoro, tanto meno in Aida (composta negli stessi anni), la cui partitura è profondamente influenzata da stilemi wagneriani ed i cui personaggi hanno la compattezza granitica delle colossali statue dei faraoni, non certo la varietà di sfumature psicologiche dei protagonisti di Don Carlo, il cui libretto, tratto da Friedrich Schiller e centrato su ideali di progresso e libertà, è tra i migliori mai avuti a disposizione da Verdi. Ancora oggi Don Carlo resta un capolavoro enigmatico, dal fascino misterioso e avvolgente, opera suprema da amare senza riserve: i suoi personaggi hanno i contorni angosciati delle figure di El Greco, sono prigionieri di ideali irraggiungibili, tormentati da sogni, speranze e aspirazioni fino alla tanto agognata pace dell’anima profetizzata dal Frate-Carlo V.
Ma quale Don Carlo allestire, la versione in quattro atti o quella in cinque? Con l’atto di Fontainebleau (versione in italiano e senza balletto, data al Comunale di Modena nel 1886) si rende omaggio alla completezza dell’opera ed al modo in cui fu concepita. Descrivendo l’antefatto (l’incontro e l’amore a prima vista tra Carlo ed Elisabetta, Filippo che invia la delegazione spagnola a chiede la mano della principessa per sé anziché per il figlio) si guadagna in comprensione degli eventi successivi ed il “motivo di Fontainebleau”, che riappare nel corso dell’opera come ricordo dell’attimo di felicità dei due amanti, acquista in senso e pregnanza. Con la versione in quattro atti (data alla Scala nel 1884) si ha invece il vantaggio di avvicinarsi immediatamente alla vicenda e di venire subito immersi in una maggior tensione drammatica e musicale, nonché, con grande effetto teatrale, di aprire e chiudere l’opera sul “motto” di Carlo V. A Firenze si è scelto di alternare le due versioni per un confronto immediato, mentre allo Sferisterio è attesa, ad aprire la stagione 2005, la versione in quattro atti. In entrambe le versioni Don Carlo rimane un’opera suprema.
Al Comunale toscano è andata in scena la celeberrima edizione dell’opera di Roma del 1964 con scene e costumi di Luchino Visconti e regia di Alberto Fassini, mentre la ricostruzione dell’atto di Fontainebleau è stata curata dal Maggio Musicale Fiorentino sui bozzetti originali, poiché la ripresa dei cinque atti si ha dopo il 7.12.68, alla Scala con Abbado (dunque Visconti e Fassini hanno lavorato su quella in quattro atti). Scene e costumi sono di una bellezza impressionante, sfarzosi, preziosissimi, oggi nessuno riuscirebbe più a produrre uno spettacolo così ricco e costoso (otto cambi di scena, costumi da museo, il quadro secondo dell’atto terzo da svenimento). Alla guida dell’Orchestra del Maggio Musicale Zubin Mehta, bacchetta di assoluto prestigio, che però in alcuni momenti ha diretto con troppa enfasi, con troppa pompa (e troppi ottoni) una partitura spesso scura e cupa, una “tinta nera” che si stende come pece sulla vicenda, sulla musica e persino sulle voci, dominate dalle gravi maschili (tre bassi, Filippo, il Grande Inquisitore e il Frate, che scolpiscono le loro frasi negli abissi della tessitura musicale). In Don Carlo si invertono le normali caratteristiche che rapportano tenore e baritono: il tenore di genere rappresenta l’ideale, senza incrinature, mentre il baritono è quasi sempre conflittuale. E invece qui l’idealista è Rodrigo, mentre tormentato e cupo è Carlo. Il cast toscano della versione in cinque atti è stato di prim’ordine. Nei ruoli femminili Barbara Frittoli ha saputo essere una Elisabetta lirica e drammatica, severa e appassionata, sdegnosa e innamorata, graduando con consumata esperienza il movimento scenico e la ricca gamma vocale. Magnifica, per splendore di voce ed intensità di espressione, Violeta Urmana nel ruolo della Principessa Eboli, che ha meritato e ricevuto dal pubblico un tifo da stadio. Straordinaria prova per Roberto Scandiuzzi, che con la sua bellissima voce ha dato a Filippo tutto il maestoso, crudo eppure nobile ed umano rilievo, che il personaggio richiedeva. Carlo Guelfi è stato un Rodrigo dalla grande presenza scenica e dalla voce potente e bella, seppure è sembrato impreciso in alcuni momenti. Un imponente inquisitore è stato Paata Burchuladze, tonante di voce ed efficace nel gioco scenico, sostenuto dalla musica che forse, nel suo ingresso nella camera di Filippo, è la pagina più alta scritta da Verdi, con l’emozionante quasi assolo di controfagotto, inquietante, oltretombale, apocalittico, minaccioso. Don Carlo ha avuto con Fabio Armiliato un appassionato rilievo sentimentale, anche se la sua voce è sembrata la più debole del cast, considerato però che il ruolo richiede una forza ed un’estensione oggi inimmaginabili. Il cambio di scena nel mezzo del secondo atto si è svolto a sipario aperto, una forma di protesta singolare delle maestranze del Comunale, in modo tale da rendere giustizia ad un lavoro difficile e faticoso, svolto nell’anonimato, qui invece coronato da un uragano di applausi. Infiniti applausi anche alla fine per un’opera monumentale e memorabile. Un’opera suprema.
Visto a Firenze, teatro Comunale, il 12 dicembre 2004 (in cinque atti)
Allo Sferisterio di Macerata il 16, 24 luglio, 6 e 13 agosto 2005(in quattro atti)
FRANCESCO RAPACCIONI
Visto il
al
Maggio Musicale Fiorentino
di Firenze
(FI)