Milano, teatro alla Scala, “Don Carlo” di Giuseppe Verdi
L’INFANZIA, PARADISO PERDUTO
Don Carlo debutta a Parigi nel 1867, cinque atti in francese, opera mai divenuta “popolare” per le oggettive difficoltà legate alla sua produzione, essendo monumentale nella durata, nella partitura e nell’allestimento, poiché richiede masse artistiche poderose e una compagnia di canto vasta e di eccezionale livello per i sei ruoli, principali e principeschi. Don Carlo è un insuperato punto di arrivo nell’evoluzione del linguaggio verdiano, un unicum che non trova corrispettivo in nessun altro lavoro, non in Aida (quasi coeva), la cui partitura è influenzata da stilemi wagneriani ed i cui protagonisti sono compattamente granitici come le statue dei faraoni, mentre presentano una varietà di sfumature psicologiche i protagonisti di Don Carlo, il cui libretto, tratto da Friedrich Schiller, è tra i migliori mai avuti a disposizione da Verdi.
Ma quale Don Carlo allestire, la versione in quattro atti o quella in cinque? Con l’atto di Fontainebleau (versione in italiano e senza balletto, data al Comunale di Modena nel 1886) si rende omaggio alla completezza dell’opera ed all’idea in cui fu concepita: descrivendo l’antefatto (l’incontro e l’amore a prima vista tra Carlo ed Elisabetta, Filippo che invia la delegazione spagnola per chiedere la mano di Elisabetta per sé anziché per il figlio Carlo) si comprendono gli eventi successivi ed il “motivo di Fontainebleau”, che riappare nel corso dell’opera come ricordo della felicità perduta dei giovani Carlo ed Elisabetta, acquista in senso e pregnanza. Invece con la versione in quattro atti data alla Scala nel 1884 si ha il vantaggio di un ingresso immediato nella vicenda, di essere subito immersi in una maggiore tensione drammatica e musicale e di aprire e chiudere l’opera sul “motto” di Carlo V con grande effetto teatrale.
Mentre a Firenze nel 2004 si sono alternate le due versioni ed allo Sferisterio di Macerata nel 2005 si è scelta la versione in quattro atti, va da sé che alla Scala sia rappresentata l’edizione del 1884, ma con l’aggiunta di un brano, la trenodia funebre in onore di Rodrigo nella prigione del terz’atto (poi espunta dall’autore e ripresa nel “Lacrimosa” della Messa da Requiem), unico momento della consonanza affettiva tra Carlo e Filippo, in cui entrambi piangono l’amico a cui, per ragioni diverse, avevano aperto il proprio cuore.
In tutte Don Carlo rimane un capolavoro enigmatico, dal fascino misterioso e avvolgente, opera suprema i cui personaggi hanno i contorni angosciati delle figure di El Greco, sono prigionieri di ideali irraggiungibili, tormentati da sogni, speranze e aspirazioni fino alla tanto agognata pace dell’anima profetizzata dal frate.
Il regista Stéphane Braunschweig pone in risalto il senso di perdita dell’innocenza e dell’infanzia, facendo apparire come un sogno sullo sfondo l’incontro nella foresta di Fontainebleau tra i due bambini Carlo ed Elisabetta, nonché i giochi ed il giuramento di eterna amicizia fra Carlo e Rodrigo. Così acquista rilievo la cacciata della contessa d’Aremberg dalla corte di Spagna ordinata da Filippo: l’addio tra Elisabetta e la contessa, compagna d’infanzia divenuta in Spagna compagna di esilio, appare come un addio all’infanzia e alla felicità perduta. Per questo tre “buoni” (Carlo, Elisabetta e Rodrigo) sono “replicati” da bambini con gli stessi costumi, un doppio che rimanda all’anima ed all’infanzia, a quel paradiso perduto paradigma della vita da adulti.
La regia è didascalica, conduce il pubblico in modo piano e comprensibile nella vicenda, mostrando sia i passi del plot che l’evoluzione drammatica dei personaggi. Sicuramente perfetta per il pubblico giovanissimo della anteprima del quattro dicembre, una novità ottima della stagione in corso. Ma adatta per tutti. La scenografia dello stesso Braunschweig, improntata a una rigorosa geometria, è concepita come spazio dell’anima, spetta ai costumi sontuosi di Thibault van Craenenbroeck ambientare la vicenda nel Rinascimento, salvo un’incursione negli anni Trenta con il coro, forse un richiamo all’epoca franchista a significare il perpetuarsi dell’oppressione, ieri come oggi.
All’inizio uno sfondo di foresta e un doppio piano con l’incontro tra Elisabetta e Carlo bambini. Carlo che consegna la spada, invece che a Rodrigo, al doppio-bambino. Unico “scivolone” la scena dell’autodafè con il piccolo Carlo legato a un palo fra i condannati e poi assunto in cielo mentre si ascolta la voce dal cielo, cosa che crea confusione in una messa in scena invece comprensibilissima. Qui interessanti le figure ecclesiastiche, distratte ed indifferenti, assise su alti scranni con lunghissime vesti che scendono fino a terra (Verdi ne fa una critica aperta contro la Chiesa del suo tempo: “Dunque il trono piegar dovrà sempre all’altare!” canta Filippo). Funzionale nel terzo atto il passare dal gabinetto del re alla prigione di Carlo semplicemente facendo avanzare da fondo scena una cornice, un imbuto di pietra che funge da cassa armonica esaltando le voci. Nel quart’atto Carlo ed Elisabetta sono inginocchiati davanti alla tomba di Carlo V come se stessero sposandosi e, nel finale, Carlo è rannicchiato in posizione fetale sopra la tomba del nonno, mentre il frate incoronato lo ghermisce nell’ampio mantello nero: ancora un richiamo alla infanzia perduta.
Sicuramente da lodare la cura attoriale nella recitazione di tutti i personaggi.
Daniele Gatti sottolinea splendidamente la tinta nera che si stende come una pece su tutta la partitura, scura e cupa, complice il posizionamento dei musicisti, coi violoncelli al centro. I tempi allargati ma sempre controllatissimi, rigorosamente, consentono al suono di spiegarsi e fondersi col canto. Il risultato è intenso, compatto e serrato, incalzante, senza mai un momento in cui lo spettatore si distrae. Gatti conduce l’orchestra a un suono nitido e netto con superbi passi solistici ed un amalgama affascinante tra strumenti solisti ed orchestra. La mano è ferma e le incitazioni veementi, permettendo un coordinamento perfetto da buca e palco con un respiro quasi ultraterreno, a richiamare quel paradiso perduto che il regista mette al centro dell’allestimento.
Il cast alla prima replica è parso più rilassato e agiato che non al debutto, minato dalla tensione solita a cui si sono aggiunte le questioni degli scioperi ed il “caso” Filianoti. Stuart Neill è un Carlo potente e sicuro che arriva fino in fondo senza accusare stanchezza o cedimenti. Dalibor Jenis un Rodrigo dalla bella voce e corretto, un poco debole nei colori e con un’ottima presenza scenica. Ferruccio Furlanetto è un ottimo Filippo anziano e combattivo, cammina con l’ausilio del bastone ma non per questo è cedevole; sempre nobile, maestoso e, al tempo stesso anche umano, come nella toccante aria aggiunta di lamento per la morte di Posa. Fiorenza Cedolins è una Elisabetta prigioniera di un ruolo pubblico che non si è scelto, quasi “ingessata” negli abiti, algida e dura, che si scioglie nel corso della recita arrivando ai toni sentimentali, passando dalla severità alla passione con perfetta adesione vocale e una cura particolare nei suoni. Dolora Zajick è una Eboli potente ed intensa, dagli acuti travolgenti ma poco coinvolgente soprattutto per le difficoltà con l’italiano. Inadeguato il Grande Inquisitore di Anatolij Kotscherga, soprattutto nell’attacco sull’assolo di controfagotto che precipita la frase musicale negli abissi della tessitura. Perfetto il frate di Gabor Bretz. Con loro Carla di Censo (Tebaldo), Cristiano Cremonini (Lerma), Carlo Bosi (araldo), Julia Borchert (voce dal cielo) e Filippo Bettoschi, Davide Pelissero, Ernesto Panariello, Chae Jun Lim, Alessandro Spina e Luciano Montanaro (deputati fiamminghi).
Notevole la prova del coro preparato da Bruno Casoni.
Qualche posto vuoto in teatro, pubblico plaudente a lungo, soprattutto all’indirizzo di Daniele Gatti. Unanimi consensi.
Visto a Milano, teatro alla Scala, il 10 dicembre 2008
FRANCESCO RAPACCIONI
Visto il
al
Teatro Alla Scala
di Milano
(MI)