Lirica
DON CARLO

Una corte in lutto

Una corte in lutto

Don Carlo debutta a Parigi nel 1867 (versione in cinque atti in francese) e non diviene popolare per le oggettive difficoltà legate alla sua produzione, essendo monumentale nella durata, nella partitura e nell’allestimento, poiché richiede masse artistiche poderose e una compagnia di canto vasta e di eccezionale livello per i sei ruoli, principali e principeschi. Ma l'opera è un insuperato punto di arrivo nell’evoluzione del linguaggio verdiano, un unicum che non trova corrispettivo in nessun altro lavoro, certamente non in Aida (quasi coeva), i cui protagonisti sono compattamente granitici come le statue dei faraoni, mentre presentano una varietà di sfumature psicologiche i protagonisti di Don Carlo (il libretto, tratto da Friedrich Schiller, è tra i migliori mai avuti a disposizione da Verdi).
Ma quale Don Carlo allestire, la versione in quattro atti o quella in cinque? Con l’atto di Fontainebleau (versione in italiano e senza balletto, data al Comunale di Modena nel 1886) si rende omaggio alla completezza dell’opera e all’idea in cui fu concepita: descrivendo l’antefatto (l’incontro e l’amore a prima vista tra Carlo ed Elisabetta e Filippo che invia la delegazione spagnola per chiedere la mano di Elisabetta per sé anziché per il figlio Carlo) si comprendono gli eventi successivi e il motivo di Fontainebleau, che riappare nel corso dell’opera come ricordo della felicità perduta dei giovani Carlo ed Elisabetta, acquista in senso e pregnanza. Invece con la versione in quattro atti data alla Scala nel 1884 si ha il vantaggio di un ingresso immediato nella vicenda, di essere subito immersi in una maggiore tensione drammatica e musicale e di aprire e chiudere l’opera sul motto di Carlo V con grande effetto teatrale. In tutte Don Carlo rimane un capolavoro enigmatico, dal fascino misterioso e avvolgente, opera suprema i cui personaggi hanno i contorni angosciati delle figure di El Greco, sono prigionieri di ideali irraggiungibili, tormentati da sogni, speranze e aspirazioni fino alla tanto agognata pace dell’anima profetizzata dal frate.

Il Teatro Regio di Parma dimostra una straordinaria rinnovata vitalità e inaugura il Festival Verdi 2016 con una nuova produzione (versione in quattro atti senza danze) insieme ai teatri lirici di Genova, Tenerife e Lisbona. Nella stessa giornata della prima annuncia il favoloso cartellone dell'edizione 2017: Jérusalem, Traviata, Stiffelio, Falstaff e Messa da Requiem, un mese con una recita per ogni giorno.

Il regista Cesare Lievi pone in risalto il lutto che pervade la corte spagnola, segno di assenza, di espiazione, di mancanza: unica salvezza possibile il fantasma di un re defunto da tempo. La scena di Maurizio Balò è una scatola di marmo bianco attraversato da venature nerastre dove gli oggetti di scena consentono di ambientare perfettamente i vari momenti senza lunghe pause di cambio scena e dunque mantenendo la compattezza dell'azione; alcune soluzioni sono particolarmente efficaci, come il quarto atto con i fondali che man mano restringono sempre di più lo spazio scenico durante l'aria di Elisabetta fino a riportare il luogo dell'inizio, la tomba di Carlo V, con il pavimento che pare una spiaggia dopo un naufragio. I costumi, sempre di Maurizio Balò, consentono di datare storicamente la vicenda e connotano di un nero luttuoso lo spettacolo, mentre le luci di Andrea Borelli conferiscono la giusta drammaticità alla vicenda. La regia è attenta a cogliere i rapporti tra i personaggi, sottolineando gli snodi del plot e le evoluzioni sentimentali, per cui la rappresentazione si lascia seguire in modo agevole e coinvolgente: Lievi è uomo di solida esperienza teatrale e anche un singolo gesto riesce a esprimere un'intenzione o un sentimento, pur in presenza di cantanti che non brillano particolarmente per verve attoriale. Il pregio maggiore ci è parso quello di non sovraccaricare la scena di simboli ma di presentare gli aspetti che emergono dalla partitura: il contrasto padre-figlio, i nobili sentimenti del Marchese di Posa, il rapporto tra Stato e Chiesa, l'anelito verso la libertà represso dal centralismo politico, le sfumature degli afflati intimi che legano Filippo e Carlo a Elisabetta.

Daniel Oren mantiene saldamente il controllo della partitura e garantisce un perfetto raccordo tra buca e palco. Il Maestro stempera la tinta nera della partitura, visivamente ben resa dal punto di vista scenotecnico, a vantaggio di una sottolineatura continua dei mutamenti di stati d'animo. I tempi sono precisi ma non metronomici, il suono è serrato e compatto, incalzante dietro le incitazioni veementi a cui Oren oramai ha abituato il pubblico.

Josè Bros tratteggia un Carlo profondamente innamorato di Elisabetta ma anche coinvolto negli ideali libertari; la voce è salda e generosa e affronta con sicurezza le salite all'acuto. Vladimir Stoyanov è un espressivo Rodrigo dal fraseggio morbidissimo. Nobilissimo e vocalmente straordinario il Filippo di Michele Pertusi: l'apertura del terzo atto è uno dei momenti più alti della serata a cui il pubblico tributa una lunga ovazione; il cappotto col collo di pelliccia ben lo identifica nell'autorevolezza del ruolo e il suo ingresso dal fondo su una lunga scalinata che ascende al cielo è assai significativo (“Dio mi ha donato la corona”, ricorda il Re). Ievgen Orlov è il Grande inquisitore e la sua voce profonda e tonante ben tratteggia il temibile nonuagenario sull’assolo di controfagotto che precipita la partitura negli abissi della tessitura. Serena Farnocchia è una Elisabetta altera e distaccata, sospettosa, conscia del proprio ruolo e della necessità di rispettare gli accordi presi tra gli Stati, pur sacrificando i sentimenti; la voce è adeguata, non teme gli acuti e resta ben poderosa nel grave; in particolare si è apprezzata la resa curata nelle espressive mezzevoci. Marianne Cornetti è una potente Eboli dalla voce ampia e pastosa. Giusti, nei ruoli di contorno, Simon Lim (Un frate), Lavinia Bini (Tebaldo), Gregory Bonfatti (Conte di Lerma e Un araldo), Marina Bucciarelli (Voce dal cielo). A Martino Faggiani si deve la perfetta prova del Coro del Teatro Regio di Parma, da cui provengono anche gli eleganti Deputati fiamminghi (Daniele Cusari, Andrea Goglio, Carlo Andrea Masciadri, Matteo Mazzoli, Alfredo Stefanelli, Alessandro Vandin) e i Frati solisti; efficace la scena in cui il coro (i popolani) brandisce i crocifissi come fossero spade, rendendo evidente la sottomissione della Corte spagnola alla Chiesa cattolica. Numerosi mimi completano il cast, forte ma calzante la sfilata verso il rogo dei corpi straziati dalle torture e del mucchio di libri.

Teatro esaurito, serata elegante a riverdire antichi fasti parmensi; completo successo con applausi ripetuti e prolungati sia a scena aperta che nel finale con innumerevoli chiamate alla ribalta.

Visto il 01-10-2016
al Regio di Parma (PR)