Dice che non gli interessa interpretare Don Chisciotte, ma di evocarlo, di raccontarlo. E Corrado D'elia lo fa, bene, colpendo il pubblico con stoccate e affondi di pensieri e rivelazioni.
Probabilmente l’idea iniziale era quella di mettere in scena Saint-Exupéry, ma all‘ultimo momento, lo spagnolo ha preso il sopravvento. Tuttavia, piuttosto di collocare sul palco un antiquato e alquanto scontato ronzino impagliato, è stato deciso di lasciare l’aereo del principino. Checché se ne dica, i tempi moderni richiedono mezzi di trasporto più veloci anche per i sognatori erranti.
E così, seduto sopra la fusoliera, Corrado D'elia come “l’ingegnoso hidalgo” si lancia all’attacco con in mano però non una lancia ricavata dal ramo di una quercia, ma un microfono. Come da uno studio radiofonico, con una lampada da tavola e un libro aperto poggiato su un leggio, egli spicca il volo parlando dei sogni, dei desideri, delle fantasie, degli ideali e di quelle che considera le maggiori piaghe del nostro “secolo corrotto”: apatia, indifferenza e mancanza di ideali.
Qui si potrebbe aprire una grande parentesi su di chi realmente abbia bisogno l’Italia di oggi: di visionari, romantici e idealisti oppure di ingegnosi economisti, acuti politici, onesti governatori. La mancanza dei secondi la proviamo tutti sulla nostra pelle e sulla pelle magra dei nostri portafogli. La carenza degli altri, invece, la si può ascoltare al teatro di via Savona di Milano.
Il personaggio del Cavaliere dalla Trista Figura, diventato vittima della propria immaginazione, da sempre si presenta molto allettante per il teatro. Sia per le sue incredibili, folli peripezie raccontate da Cervantes con ironia e senso del paradosso, sia per l’acuta mancanza di simili “figure” nella vita di tutti giorni. Persino nella nostra era, rozza e cinica, c’è chi continua a sentirsi affascinato dall’immagine del magnanimo e cocciuto hidalgo che non scende mai ai compromessi davanti al suo sogno maniacale di avventure e di gloria.
Tra questi è Corrado d’Elia che, a modo suo, ha voluto conseguire il senso dei “ballordagini”, ovvero i misteri di Don Chisciotte, che rappresentano l’essenza dei basilari concetti dell’esistenza umana: bene e male, amore e giustezza. Egli costruisce il suo breve spettacolo-monologo su un contrappunto di lettura, ovvero un sunto dei frammenti più noti del celebre romanzo e di proprie meditazioni sul tema scritte sotto forma di un diario.
Dice che non gli interessa interpretare Don Chisciotte, ma di evocarlo, di raccontarlo. E Corrado D'elia lo fa, bene, colpendo il pubblico con stoccate e affondi di pensieri e rivelazioni, rafforzate da toccanti intermezzi musicali. Nessun movimento in scena. Solo le parole che a poco a poco inondano la sala creando un turbinio di percezioni emozionali, un flusso di sogni irrequieti e indistinti. Malgrado la notevole carica emotiva che viene trasmessa attraverso la recitazione, le riflessioni, che sul momento paiono forti e importanti, fanno fatica a fare presa lasciando in sala solamente una permeante sensazione di malinconia. A differenza di quando d’Elia torna a parlare del cavaliere errante. Sono gli istanti in cui il pubblico, poco prima stravaccato in poltrona, si sporge in avanti e comincia a pendere dalle sue labbra, affascinato sia dalla sua forza interpretativa che dalla fervida e canzonatoria fantasia di Cervantes. Sono questi i momenti che, in fin dei conti, rappresentano l’elemento cardine dello spettacolo e che il pubblico si porta a casa. Il resto, purtroppo, rimane soltanto uno sfondo vibrante, e, per quanto bello, pur sempre uno sfondo.