Il manifesto dello spettacolo ci è parso molto bello nella sua essenzialità: bianco, quattro righe sovrapposte a grandi caratteri stampatello, nero per “cervantes”, “branciaroli” e “incamminati”, rosso per “don chisciotte”. Invero il progetto di Franco Branciaroli è così particolare che Cervantes è solo l'escamotage per la serata, il pretesto con cui l'attore, prendendo come presupposto in fatto che l'Hidalgo imiti i cavalieri, imita i “cavalieri” della scena italiana, identificati con Vittorio Gassman e Carmelo Bene. I due sono resi in scena entrambi da Branciaroli, il quale, con grande prova di attore, ne rende la postura, l'accento, il modo di parlare: enfatico, profondo, echeggiante, con le doppie personalizzate Vittorio Gassman; aspro e nasale, quasi in falsetto Carmelo Bene.
La scena di Margherita Palli presenta una torre sghemba dove si apre una porta che si immagina porta dell'aldilà; ai lati due tavoli pieni di bottiglie, gin per Bene e whiskey per Gassman; una sola poltrona di pelle rossa, anzi, più che una poltrona, una sedia coi braccioli. Un velo sulla linea di proscenio, che separa “aldiqua” e “aldilà”, una linea oltre la quale non c'è impresa che non possa essere tentata. Branciaroli fa dapprima una premessa sul romanzo, “libro di avanguardia” che contiene situazioni non concatenate ma presentate per accumulazione, per cui è facile prendere degli estratti a caso che non modificano un plot che non c'è.
In fondo si tratta di un viaggio quello che Brancia propone agli spettatori. La sua narrazione è piana e presenta i personaggi e le loro interazioni. Fra veli e sipari, fra bicchieri e sigarette, il racconto tocca episodi di Don Chisciotte, disquisizioni sul romanzo e col romanzo (Gassman è l'Hidalgo e Bene Sancho). Ma non solo. È molto l'altro, soprattutto quel modo diverso di fare e intendere teatro che Gassman e Bene rappresentano. Ecco allora il confronto tra i due nel recitare il V canto dell'Inferno dantesco, con il sommo poeta chiamato a giudice (che sceglierà una terza versione, quella di Albertazzi, con sommo sprezzo di Gassman che dichiarerà di avergli sempre preferito Petrarca). Quindi le conversazioni sul ruolo dell'intellettuale (colui che interpreta il mondo ma non ha i mezzi per cambiarlo), i pubblici amministratori (i ragli dell'asino), il libro-specchio (il libro nel libro, come il gioco barocco del teatro nel teatro), il ruolo della satira (la beffa che rende ambiguo tutto quello che tocca). Per arrivare al Faust di Marlowe e a quella edizione teatrale con il giovane Branciaroli tra i protagonisti. E concludere che i due attori, come Don Chisciotte e Sancho, non sono due estremi ma due metà dello stesso essere visto dai due lati.
Alcuni momenti di questo incontro “virtuale” tra i due grandi del teatro italiano mi hanno ricordato “Le interviste impossibili” oppure i processi del Festival di Spoleto. Un'operazione che solo Branciaroli poteva pensare ed osare intraprendere.
Le luci sempre mutevoli di Gigi Saccomandi creano ogni alternativa possibile alla scena fissa di Margherita Palli, mentre le musiche curate da Daniele D'Angelo (in parte originali) ottimamente costruiscono le varie atmosfere. Franco Branciaroli, manco a dirlo, è bravissimo (vestito con l'elegante smoking di Caterina Lucchiari) nell'imitare, nel declamare, nel muoversi al ritmo dei Gipsy King. Nel percorrere quella linea ideale che collega sé stesso e i due attori. Perchè, in fondo, Branciaroli è di sé stesso che ci racconta in questo viaggio.