Lirica
DON GIOVANNI

LE STANZE VUOTE

LE STANZE VUOTE

Damiano Michieletto ci ha abituato a non stravolgere le opere liriche dal punto di vista del plot o del libretto, ma ha sempre dato prova di idee originali, forti e innovative per regie che si traducono in segni scenotecnici particolarmente incisivi ed efficaci. In questo caso Paolo Fantin ha creato una struttura rotante, una giostra di stanze vuote, prive di finestre, poco illuminate da candele, tappezzate di stoffa verde stinta (come se l'acqua penetrasse dall'alto lasciando lunghe lingue nerastre), stanze comunicanti tramite porte pressochè identiche (che a volte si aprono a volte no), stanze una dentro l'altra, una dopo l'altra, circolarmente, senza uscita. Le stanze ruotano e i personaggi, porta dopo porta, si ritrovano da capo, nella solitudine, senza poter uscire. Di stanza in stanza, di vuoto in vuoto. Senza altra possibilità.
Don Giovanni non scappa dalle donne ma da se stesso, dalla vita. Inutilmente: il Don Giovanni di Damiano Michieletto è un uomo in fuga da se stesso che trova l'unica ragione di vita in quella girandola meccanica. Ma non ha altra scelta. L'unica possibilità è l'autodistruzione.

Si ha l'impressione che l'energia creatrice di Michieletto sia “contenuta” in questo caso, con una dose di “tradizione” che in prove precedenti non c'era. Non c'è attualizzazione (d'epoca i cupi costumi scuri di Carla Teti, perfetti per l'allestimento) ma sempre un preciso e motivato ragionamento dietro ogni gesto, dietro ogni scena. Massima attenzione è riservata ai personaggi, curatissimi anche dal punto di vista attoriale, in modo da cercare nuove prospettive nei caratteri e renderli visibili agli spettatori con un grande senso teatrale.

La scena è unica per tutto lo spettacolo, ma, ruotando, crea nuove stanze, nuovi ambienti con la stessa mobilia e uno stordente senso di claustrofobia. I video di Luca Scarzella si limitano a una grande farfalla in bianco e nero che accompagna le due apparizioni del Commendatore e che Don Giovanni guarda quasi ipnotizzato, come in un sogno; nel momento in cui Don Giovanni muore la farfalla si moltiplica in innumerevoli piccole farfalle. Durante il catalogo Leporello apre una valigia zeppa di lettere su cui si getta, incredula, Elvira; la donna apre le buste, le sfoglia, le straccia, le butta in aria come foglie in autunno e non si capacita che tutto ciò sia vero, sia possibile, stia accadendo a lei; e, masochisticamente, si accanisce a leggerle tutte. Nella scena del matrimonio di Zerlina e Masetto tutti i giovani girano attorno a un tavolo lungo rettangolare, vestendo costumi d'epoca scuri e uniformi. Spesso le luci sono frontali e le ombre si allungano, oscure e minacciose, sulle pareti debolmente illuminate da fioche candele alla maniera veneziana, davanti a specchi vagamente settecenteschi. Nel duetto Donna Anna – Don Ottavio la figura di Don Giovanni si sostituisce a Ottavio e segue Anna stanza dopo stanza, fino a che lei si stende sopra il tavolo e Don Giovanni la attira a sé tirando la tovaglia: un incubo che le impedisce di relazionarsi con Ottavio. Zerlina canta “Batti, batti, o bel Masetto” davanti a una porta serrata. Nel finale del primo atto non ci sono maschere, ma figure senza identità che si muovono nella stanza come in un labirinto al buio con le candele in mano; alle porte si affaccia il Commendatore, come in un incubo.

Anche nel secondo atto Don Giovanni appare, muto, in scene di altri personaggi, come se egli fosse sempre nei pensieri di quei personaggi e ne condizionasse le azioni ed i moti intellettuali. In “Elvira, idolo mio” Elvira e Don Giovanni sono separati da una parete e siedono sullo stesso letto matrimoniale segato a metà. Invece della statua del Commendatore c'è il suo feretro in una camera ardente. Il “pasto” di Don Giovanni è un'orgia di sesso e alcool, senza freni, senza inibizioni, che conferma la meccanicità dei comportamenti del protagonista, quel suo aggredire chi gli è vicino. A seguire la stessa stanza con nebbia e mobili accatastati; Don Giovanni si accanisce col bastone (per la seconda volta) su un simulacro del Commendatore, probabilmente il ricordo che egli ha del corpo sul letto come nell'inizio. Quindi si accascia al suolo, nel girare della scenografia. Nel finale, dopo il sestetto, Don Giovanni rientra in scena e, come anche in precedenza, continua a dominare gli altri personaggi, essendo sempre nelle loro menti: un suo gesto della mano e tutti cadono a terra. Poi lui se ne va, sghignazzante. Nessuno si è liberato di lui, ciascuno lo trattiene nella propria mente, nel proprio cuore. Senza altra possibilità, senza via di uscita: come da quelle stanze vuote ma senza finestre.

Don Giovanni ha la bella voce di Marcus Werba, affascinante e lontano dal machismo latino dei precedenti recenti (peraltro ottimi, Erwin Schrott alla Scala e Ildebrando D'Arcangelo a Macerata), un Don Giovanni divorato dall'ansia, serpentino, con una risata tra il diabolico e l'insano di mente. Werba cerca e trova una chiave maggiormente intellettuale, maggiormente intimista, rendendo un uomo giovane e tormentato dalla brama di vivere-avere-possedere, un uomo che affronta ogni momento della vita in modo compulsivo, forse per paura di vivere, forse per paura di morire. Un uomo che vive in fuga da se stesso e dalla vita. Un uomo mai placato. La ripetizione dei gesti di Don Giovanni appare quasi meccanica, una coartazione a ripetere le movenze, di stanza in stanza, alla ricerca non tanto di una felicità (impossibile) quanto di una pausa per placarsi anche un solo istante, impossibile anch'essa. Don Giovanni, ovvero della solitudine, potremmo dire: per non morire di solitudine e di malinconia, in quelle stanze vuote che sono la proiezione del vuoto dell'anima e della precarietà dei sentimenti. Una precarietà dei sentimenti che è bene esplorata nei ruoli femminili dell'opera, di cui poi diremo.

Alex Esposito frequenta da tempo e sempre con ottimi risultati Leporello; stupisce in questo caso, in senso positivissimo, la sua prova attoriale: un Leporello balbuziente e timido, impacciato, quasi autistico, completamente dominato dalla personalità di Don Giovanni. Esposito rende con voce impeccabile un ragazzo fragile, con gli occhiali, che non riesce ad affermare la sua personalità alla presenza di quella ingombrante e fagocitante di Don Giovanni, incapace però di abbandonarlo perchè, nonostante tutto, solo con Don Giovanni la sua vita ha un senso.
Carmela Remigio ha ormai deciso di virare da Donna Anna, suo ruolo un tempo abituale (anche recentemente alla Scala), a Donna Elvira, dopo il debutto maceratese e la performance a Rieti. Questa Elvira è meno furente del solito ma molto più dolorosa, una donna che ha ormai compreso che l'amato-amante l'ha ingannata e per questo ha perso ogni ragione di vita. Elvira ha amato Don Giovanni, profondamente, e ora la sua vita è spezzata. Irrimediabilmente. La voce si ammanta di bruniture e scava nella zona grave ma con la facilità all'acuto che conosciamo.
Aleksandra Kurzak è Donna Anna, interessante nel rapporto con il Don Ottavio poco virile (impacciato ma molto comprensivo) di Marlin Miller, del quale prova quasi ribrezzo dopo la folgorazione per Don Giovanni. Matura e determinata la Zerlina di Irini Kyriakidou, più in ombra il Masetto di Borja Quiza. Attila Jun è un Commendatore in carne ed ossa, cadavere e sogno-incubo ma non statua.

Se il cast ha convinto, meno lo ha fatto la direzioneorchestrale di Antonello Manacorda, i tempi non sono omogenei, le percussioni troppo sonore e sovrastanti il resto dell'orchestra, poco raccordati buca e palco e soprattutto il suono non ha il vibrante, oscuro fascino della partitura. Maestro al cembalo Stefano Gibellato. Bene il coro preparato da Claudio Marino Moretti.

Teatro esaurito, molti applausi soprattutto nelle arie attese dal pubblico e generosamente nel finale.

Visto il
al La Fenice di Venezia (VE)