Napoli, teatro di San Carlo, “Don Giovanni” di Wolfgang Amadeus Mozart
QUEL FANTASMA CHE NON SE NE VUOLE ANDARE
È inutile discutere sulla stupefacente attualità di Mozart e Don Juan (come sempre lo chiamerà Goethe), che pone una serie di inquietanti interrogativi, sull’amore, sulla felicità, sui rapporti tra le persone. Migliaia di pagine sono state scritte sull’argomento, non da ultime quelle di Cesare Garboli sul perché Don Giovanni “illude” e crea fantasmi di mera immaginazione.
“La felicità consiste soltanto in ciò che si immagina” scrive Mozart ventenne: questo è il primo articolo del codice mozartiano dell’esistenza. E la chiave per penetrare il mistero dei rapporti (suoi, nostri, poco cambia). L’Amadè che la scrive durante un viaggio verso Parigi (dove dispiaceri e delusioni sembrano rincorrersi da una città all’altra) la butta giù come constatazione terra terra, senza intenzioni solenni: Mozart mette a nudo il suo cuore soltanto per distrazione. Le sue verità non sono nelle frasi ad effetto, con i giri di parole elaborate e pompose che pure gli piacciono. Le sue verità sono mormorazioni, parole che gli escono quasi per sbaglio, come riempitivi, in sequenza illogica.
Il “vizio” si viene radicando perché lo consola e sempre più si abitua a credere nei fantasmi, i soli beni che la fantasia gli fabbrica: l’affetto e la stima di Giuseppe, il tenero amore di Konstanze. Pure illusioni, sia gli uni che l’altro. Fantasmi. Però della realtà Mozart non si cura, non la vede neppure: nei rapporti egli mette il contributo di tutte e due le parti. Istintivamente si impadronisce del concetto di Montaigne sulla consolazione dell’immaginazione, che Cechov renderà in teatro insuperabile: “Non occorrono cause per agitare l’anima nostra: un sogno senza corpo e senza sospetto la governa e la commuove. Se mi metto a fare castelli in aria, la mia fantasia mi fabbrica comodità e piaceri dai quali la mia anima è realmente lusingata e confortata”. Fantasmi, ancora.
C’è insomma in Mozart quello che c’è in molti di noi, l’incapacità a farsi largo, a profittare del favore che passa, a capire di essere usati per opportunismo, il non sapersi imporre e il non saper chiudere e concludere (un affare e una storia d’amore, parimenti). Soprattutto c’è l’eterna fede nei sogni, nelle chimere, nella felicità che si aspetta sempre, che si fabbrica con la fantasia, che è la più bella di tutte. E l’incapacità di scacciare i fantasmi del passato dalla nostra vita, anche in presenza di un nuovo amore. Alla fine tutti se ne vanno, Don Giovanni rimane solo con il Commendatore. Solo con un fantasma. Così sembra. E invece, dopo che don Giovanni è sprofondato, gli altri tornano, tutti, ci sono sempre stati, bastava volerli cercare, bastava volerli vedere, bastava permettere loro di avvicinarsi. E di restare. Bastava non credere ai fantasmi. Bastava credere nell’amore. Di Donna Elvira. Di Donna Anna (“Non sperar, se non m’uccidi, ch’io ti lasci fuggir mai”). Di chiunque. Purchè sia Amore. Perché è Amore.
Martone sottolinea queste idee, a cominciare dalla scenografia (di Sergio Tramonti, come i bei costumi, mentre le splendide luci sono di Pasquale Mari), una sorta di teatro anatomico, un’arena leggermente inclinata senza quinte né fondali, una gradinata emiciclica di tavole di legno che all’inizio è occupata da una folla, cantanti compresi, poi via via si svuota, scena dopo scena, fino a lasciare un unico, terribile spettatore, il Commendatore, un fantasma a cui Don Giovanni non può sfuggire. O forse non vuole (“Pentiti. – No”). Poi tutti rientrano, Leporello e Masetto si affacciano curiosi sulla voragine.
Martone si premura di evidenziare alcuni spunti comici del libretto, ma al solo scopo di ottenere, per converso, un’evidenziazione delle tinte nere e sanguinarie, mettendo a nudo il cuore di un personaggio che non ha cuore, un seduttore, un assassino, il nemico di ognuno, l’avversario di ogni coppia. Tutto in una stretta unità che crea uno spettacolo splendido, forse il più riuscito della sua trilogia, una regia attenta e curatissima nella perfetta aderenza al libretto, nel movimento di ogni singola persona, nel riflesso di ogni carattere. Infatti la regia è piena di tocchi e di dettagli di grandissima classe e se non si pone di certo come opera di rottura (come l’indimenticata prova di Calixto Bieto al Liceu, ora uscita in dvd), tuttavia è un punto fermo, un vertice di allestimento, un approccio comunque nuovo e non scontato che propone Don Giovanni come simbolo della solitudine dell’uomo e dell’ansia di forare questa solitudine entrando in comunicazione con l’altro da sé, un esempio del bisogno da cui è spinto l’uomo del Romanticismo di vincere la sua limitatezza individuale, sentito come carcere, e di stabilire un contatto con l’infinito (slancio vitale avrebbe potuto chiamarlo Kirkegaard nel suo interessante studio), ma con l’incombente ed inquietante presenza di quel fantasma, simbolo del passato, che davvero non vuol saperne di andarsene.
Yoram David lo asseconda nella direzione orchestrale, sottolineando i momenti leggeri e quelli drammatici della partitura, anche se in alcuni punti si è percepito un leggero rallentamento, non necessario. Meglio poteva essere il pur minimo intervento del Coro. Orchestra invece in buona serata, in più riprese presente con varie sezioni sul palcoscenico.
Simon Orfila ha sostituito nell’ultima recita Erwin Schrott e, anche se il suo colore non è baciato dagli dei come quello del sudamericano, è stato convincente nei toni e nei gesti, tratteggiando un Don Giovanni spavaldo e pieno di boria, opportunista e cattivissimo, regalando una prova notevole, che però nella veloce “Fin c’han dal vino” ha mostrato qualche difficoltà. La voce scurissima di Marco Spotti ha reso tangibile un Commendatore-fantasma simbolicamente presente in scena per la maggior parte del tempo. Mariella Devia ha confermato in Donna Anna, semmai ce ne fosse stato bisogno, di essere un’artista di punta, con un’interpretazione da manuale, come sempre ci ha abituato, raggiungendo un livello massimo nell’aria finale “Non mi dir, bell’idol mio” e nell’aria d’inizio “Or sai chi l’onore”, con “vendetta ti chiedo, ti chiede il tuo cor” da far rabbrividire per la perfezione. Convincente il Don Ottavio di Steve Davislim, che sfoggia un’ottima pronuncia e un colore quasi baritonale che a me piace sempre. La sua struggente aria è inserita all’inizio, secondo la consuetudine riportata da Massimo Mila, così da meglio delineare dal principio il personaggio dell’innamorato: “Dalla sua pace la mia dipende, quel che a lei piace vita mi rende quel che le incresce morte mi dà. S’ella sospira, sospiro anch’io; è mia quell’ira, quel pianto è mio; e non ho bene, s’ella non l’ha”. Buona anche l’interpretazione di “Il mio tesoro intanto”, soprattutto nella seconda parte. Bravissimo è Andrea Concetti, nella voce e nella recitazione, un Leporello che salta, corre, si arrampica, si butta per terra, tutto senza mai scalfire un’emissione piena e sicura. Più in ombra la Zerlina di Elizabeth Norberg-Schulz (grande capacità attoriale, toni curati ma voce troppo esile) e il Masetto con la faccia buona e ingenua di Giampiero Ruggeri.
Ho lasciato volutamente per ultima Sonia Ganassi, la migliore, una Donna Elvira assolutamente sublime, una prova memorabile, al punto che, nonostante il cast sia stato di ottimo livello, il suo personaggio diventa quello centrale: la voce brunita ed estesa, sempre controllata, i vocalizzi luminosi e pieni, tutti i registri perfetti, piena di pathos e di enorme carica emotiva, gli accenti ora scuri ora infuocati ora supplichevoli, un essere disperata arrabbiata innamorata, un girare per il palco sconvolta disorientata disperata, al punto che appena uscito dal teatro ho dovuto camminare a piedi in una Napoli grigia e piovigginosa per spezzare la tensione dolorosa e sofferta che mi faceva scoppiare il cuore (“Ah taci, ingiusto core, non palpitarmi in seno”). Anche se qui c’è un naturale bilanciamento tra Elvira e Anna, tuttavia la Ganassi a colpi di voce e di recitazione spadroneggia nel palco e rende crudelmente vero lo sfogo mozartiano, lei che crede che la vita sia quella che vorrebbe il suo cuore. E che invece non è. Lei che non riesce a leggere nell’anima di Giovanni. Lei che continua a credere a un fantasma. Un fantasma che non se ne vuole andare.
FRANCESCO RAPACCIONI
Visto a Napoli, teatro di San Carlo, il 26 aprile 2006
Visto il
al
San Carlo
di Napoli
(NA)