Lungo e tortuoso è l’itinerario intertestuale che conduce a Don Pasquale. Come tanti manufatti operistici, il “dramma buffo in tre atti” vanta una genealogia frastagliata, i cui rami si allungano e si intrecciano valicando con disinvoltura confini linguistici, cronologici e culturali. Senza voler risalire a topoi più remoti e più generici, il primo anello della catena delle ascendenze può essere individuato nella commedia di Ben Johnson Epicoene or The silent woman (1609), che già nel titolo evidenzia il nodo saliente della vicenda, vale a dire la repentina - e a tratti inquietante - metamorfosi della protagonista femminile dalla schiva mansuetudine alla prevaricazione impudente. Tradotta in francese con oltre un secolo di ritardo, la pièce offre lo spunto a Jean-Baptiste Rousseau per L’hypocondre ou La femme qui ne parle point (1733, ma rappresentata postuma solo nel 1761). Da qui scaturisce la fonte diretta del libretto elaborato da Giovanni Ruffini e Gaetano Donizetti, quel Ser Marcantonio di Angelo Anelli su cui Stefano Pavesi aveva composto nel 1810 una delle sue partiture più fortunate e longeve, ancora in circolazione (cosa rara) sui palcoscenici italiani ed europei alle soglie del debutto di Don Pasquale a Parigi il 3 gennaio 1843.
Su questa traccia, il maestro di Bergamo imbastisce la sua vivacissima intonazione, animata da una proliferazione di idee musicali tanto generosa da rasentare lo sperpero. Il compositore preferisce accumulare piuttosto che elaborare, allineare paratatticamente piuttosto che sviluppare; il risultato è una carrellata di pennellate magistrali che tuttavia bruciano di breve fiamma e svaporano quasi all’istante.
Il massimo napoletano ha scelto il gioco scoppiettante e un po’ amaro dell’inganno ordito ai danni del «vecchio celibatario tagliato all’antica» per concludere la seconda edizione del San Carlo Opera Festival, fortunata rassegna estiva capace di attirare un pubblico più vario, curioso e caloroso di quello abituale. L’allestimento firmato da Roberto De Simone risale a quasi venticinque anni fa, in quanto venne ideato nel 1991 per il Teatro Lauro Rossi di Macerata; varie volte riutilizzato sui palcoscenici italiani, esso è stato ripreso in questa occasione da Ivo Guerra. La scena, progettata da Nicola Rubertelli, è dominata da un’architettura circolare di gusto liberty simile a un fiabesco carillon, che con opportune rotazioni offre alla vista le diverse ambientazioni richieste dalla semplice trama. In questo spazio mobile e mutevole, i personaggi si muovono indossando i costumi di Zaira De Vincentiis, ispirati a un’eleganza belle époque. L’impatto visivo fa scivolare la creazione donizettiana verso un’atmosfera da operetta, enfatizzata da scelte registiche - non si sa dire se primitive o avventizie - che optano per gesti caricati fino ai limiti della caricatura. L’effetto complessivo non è del tutto convincente, giacché la monocromia farsesca non valorizza il chiaroscuro che si cela sotto la superficie svagata della fabula.
La messinscena sancarliana si giova di un cast di buon livello. Su tutti spicca, per voce e presenza scenica, Paolo Bordogna nei panni dell’antieroe eponimo; il cantante milanese si produce in una sapiente varietà di emissioni e caratterizzazioni, confermandosi interprete ideale di questo tipo di repertorio. Antonino Siragusa appare a proprio agio nei panni di Ernesto, anche se la regia lo costringe a pose da gagà che a lungo andare risultano stucchevoli. Barbara Bargnesi (Norina) ha buona agilità e volume adeguato; tuttavia, sebbene le note (anche le più acute) ci siano tutte, la sua prova lascia desiderosi di più accurate sfumature espressive e di una malizia meno istrionica. Mario Cassi tratteggia la parte di Malatesta con accuratezza ma senza particolare smalto. Al quartetto dei protagonisti si affianca Rosario Natale nel ruolo del notaio.
Christopher Franklin dirige con energia, precisione e varietà di respiro, come appare evidente sin dall’attacco della sinfonia; sotto la sua bacchetta, l’orchestra del San Carlo sfodera pulizia di suono, impasti ben legati, assoli irreprensibili. Non brillantissimi appaiono invece gli interventi del coro, forse penalizzato dalla collocazione in buca. Nell’insieme lo spettacolo scorre piacevolmente e conquista il pieno consenso del pubblico.