Lirica
DON PASQUALE

Don Pasquale dentro un film in bianco e nero

Don Pasquale dentro un film in bianco e nero

«Come non associare il personaggio di Ernesto alla figura dell'innamorato interpretato da Vittorio de Sica in film come "Gli uomini che mascalzoni" o "Il conte Max"? E come non riconoscere in Norina l'Elsa Merlini della "Segretaria privata", una delle tante 'cenerentole' degli Anni Trenta che non attende inerte il proprio destino e che corona il sogno di sposare il proprio direttore?» commenta il regista Italo Nunziata nelle sue concise note di regia del "Don Pasquale" portato in scena al Teatro Comunale di Treviso, motivando in tal modo lo spostamento temporale, da lui operato, della pochade che il librettista Giovanni Ruffini e Gaetano Donizetti scrissero per Théâtre Italien di Parigi. Uno spostamento che ci porta dagli anni intorno al 1840 - un'epoca 'moderna' per i due autori - all'Italietta tra Prima e Seconda Guerra Mondiale: felicissima ed indovinata trasposizione, senza dubbio, dove si raffigura Don Pasquale come austero capitano d'industria - sua è una fabbrica di tessuti all'insegna dello slogan "Eleganza Qualità Risparmio" - pur restando nel contempo come un settantanne un po' babbione, smanioso di aggiungere alla grande insegna « Da Corneto» troneggiante dietro la sua monumentale scrivania, la dicitura «…& Figli».
L'allestimento in sé non è cosa nuova, avendo girato molto e con molta fortuna: creato sulle scene del teatro Malibran di Venezia nel 2002, è poi sbarcato l'anno seguente all'Opera di Roma e al Verdi di Padova, ed è stato poi ripreso nel 2005 proprio qui a Treviso e in quel di Rovigo; e mi limito a parlare solo degli allestimenti visti di persona. Non per questo ha perso per strada la sua freschezza ed il suo fascino, a conferma del fatto che le cose belle lo sono per sempre. Le agili scenografie ed i costumi di Pasquale Grossi inquadrano gli interni degli uffici di uno stabile tipicamente Anni Trenta pieno di fattorini, autisti e segretarie affaccendatissimi, al centro del quale troneggia lo studio di Don Pasquale, padrone severo e occhiuto; nonché zio di inflessibile caparbietà, in collera con il nipote Ernesto infatuato di una delle sue impiegatine. Alla stessa stregua, la casa di Don Pasquale mostra un'aulica freddezza, dominata da grandi porte scure e abitata da anziane maestranze; sarà però presto riempita da uno stuolo di nuovi assunti e da improbabili mobili frivolamente decò ordinati dalla finta Sofronia, novella e capricciosa sposina. Molto azzeccato risulta l'inserto di proiezioni di sequenze dai film b/n di Mario Camerini - il famoso Grandi magazzini, soprattutto - a fare da contrappunto prima ai lamenti di un Don Pasquale vessato e furente, e poi ad accompagnare l'epilogo della divertente commedia, con obbligato bacio finale sullo schermo e in scena. Un apprezzamento particolare infine al modo di leggere la Sinfonia come presentazione dei vari personaggi, in una correlazione tra gesti e annotazioni musicali assolutamente ammirevole che testimonia la maestria registica di Nunziata.
Nel disegnare la sagoma di Don Pasquale il librettista Ruffini e Donizetti si burlavano della vecchiaia, con molta malizia ed ironia ma senza vera cattiveria, come farà Verdi con il suo amatissimo Falstaff: la chiave è infatti quella dell'illusione di una vana speranza, dell'aspirazione di restare e sentirsi sempre giovani, di non cedere mai all'avanzare degli anni. Tema quanto mai attuale, se vogliamo, in anni di lifting esasperati, e di signore settantenni che si vestono come ventenni. Lorenzo Regazzo, autentico campione di comicità, pare nato apposta per questo ruolo, che scioglie a modo suo- La dizione è perfetta, lo stile anche; più che cantare - e molto bene, come sempre - si avverte che sta recitando da consumato attore, e la perfetta fusione di canto e di parola non manca mai. Nella splendida tirata di Un foco addosso consegna tutto il suo personaggio; nel testa a testa con Ernesto, nella scena del matrimonio per burla, nelle allibite schermaglie con Sofronia/Norina vince sempre due a zero; nel duetto con Malatesta al terzo atto gioca benissimo di rimessa; insomma, centra sempre il suo bersaglio.
Gli tiene testa senza problemi Roberto de Candia, un Malatesta ben funzionale allo scopo, che è quello di fare da arguta spalla all'anziano bellimbusto: la linea di canto è ferma e elegante, il timbro piacevole, il personaggio sempre inquadrato con garbato umorismo.
Laura Giordano riesce ad evitare i bamboleggiamenti della macchietta - insidia sempre presente in questo genere di ruoli - nel trovarsi alla prese con la peperina figura di Norina, ed è già gran cosa. E' un soprano leggero, il timbro non è sempre bello ed il suono è asciutto; ma si salva agevolmente con un bel gioco d'espressività e con una disinvoltura scenica encomiabile.
Punto debole del cast, il giovane tenore Dionigi D'Ostuni non mi pare abbia fatto gran figura, consegnando un improbabile Ernesto: la voce è legnosa e poco corposa, il timbro non particolarmente virile né seducente; e poi non mi sembra saper fraseggiare con la necessaria scioltezza. Forse per non buone condizioni di salute - ma allora è meglio per tutti appellarsi ad un sostituto - ha mostrato in più momenti palesi difficoltà d'emissione, con suoni assolutamente inaccettabili, e perdendo persino qualche battuta. Inevitabili quindi le contestazioni al suo indirizzo di una parte del pubblico.
Sul podio dell'Orchestra di Padova e del Veneto stava Sergio Alapont, già assistente di Marco Armiliato, ma non mi pare d'aver individuato nella sua inerte concertazione pregi particolari, a parte l'aver saputo tenere in fila strumenti e cantanti. I suoni erano corretti, la lettura di per sé senza errori, per carità; ma non mi pare che il giovane maestro iberico si sia avveduto della miniera di colori e di finezze strumentali che gli stava spalancata davanti sul leggio. Con buona pace di Gaetano Donizetti.

Visto il
al Comunale Mario del Monaco di Treviso (TV)