Aleggia già lo spirito del teatro 'leggero' di Georges Feydeau e Tristan Bernard, cioè di quell'umorismo un po' demenziale e dal fondo amaro tipico della 'pochade' di fine Ottocento, nel Don Pasquale di Donizetti, benché la fonte diretta del libretto di Giovanni Ruffini risalga a molti anni prima, vale a dire al fortunato “Ser Marcantonio” di Angelo Anelli e Stefano Provesi, commedia apparsa nel 1810 e rimasta molto popolare per vari decenni. Vi si ritrovano pari pari alcuni degli ingredienti classici d'una piccante commedia francese di fine '800: il ricco vecchiotto, in fregola per una giovane sposa e ovviamente già candidato ad esser ben presto “cocu”; l'amico intrigante e trafficone con i piedi in due staffe, la bella vedovella civettuola e il suo giovane spasimante, nipote ben presto diseredato del primo. Personaggi, a dire il vero, pressoché universali e senza età che il regista Italo Nunziata e lo scenografo/costumista Pasquale Grossi – creatori nel 2002 al Teatro Malibran di questo geniale e sempreverde allestimento che molto ha girato (e per questo, da chi scrive più volte recensito) - hanno voluto immergere negli anni Trenta del Novecento, ispirandosi apertamente al frivolo “cinema dei telefoni bianchi”; rappresentazione garbata e idilliaca - ma nondimeno un po' mistificante - della società media italiana di quegli anni. Un titolo per tutti, il popolare “Grandi magazzini” di Mario Camerini, pellicola che viene appunto proiettata sullo sfondo di questo spettacolo sempreverde, con un giovanissimo Vittorio De Sica e la mitica Assia Noris. Farsa, teatro borghese, cinema d'intrattenimento, gli ingredienti a guardar bene sono più o meno gli stessi: qui, sotto i tetti delle Manifatture Tessili Da Corneto, tra indaffaratissime maestranze d'ogni tipo, Norina è un'ambiziosa dattilografa, Don Pasquale l'autoritario e vanesio padrone, Ernesto il suo unico nipote che lavora nello stabilimento, ma trova pure il tempo per flirtare con le segretarie. Deliziose intuizioni iniziali, quelle del duo Grossi/Nunziata; però quello che più ha valore in questa loro creazione, è come ogni gesto, ogni trovata scenica sappiano in ogni momento accompagnare fedelmente e servire a puntino lo scorrere della musica con adesione a dir poco millimetrica, riuscendo a rendere con grazia garbata sia il lato melanconico, sia il versante comico dell'intreccio. Ancor oggi piacevole resta poi il quadro scenico impostato da Grossi, che rievoca nei raffinati abiti la moda del tempo, e nelle architetture e negli arredi il geometrico stile Déco che imperava allora, ricorrendo soprattutto a colori caldi – ocra rossa e gialla, su tutto - ai quali le luci di James Patrick Latronica, geniale 'light designer' recentemente scomparso, conferiscono massimo rilievo.
Don Pasquale era il grande Roberto Scandiuzzi; scelta non molto frequente, in verità, quella di un vero basso per questo ruolo solitamente consegnato a un baritono. Nondimeno, il bravissimo cantante trevigiano, che siamo soliti incontrare generalmente in ruoli seri, ha saputo alleggerire con molta sagacia la propria imponente vocalità, mettendo in mostra un gran ventaglio di sfumature e bella scioltezza di fraseggio, oltre ad un sillabato da manuale - canto e parola fuse a perfezione - riuscendo a modellare con sottile ironia un personaggio che risulta assolutamente travolgente in scena. E' così che i due momenti comici di «Un foco insolito» e del duetto con Malatesta «Aspetta, aspetta cara sposina», come pure la mesta ponderazione di «E' finita, Don Pasquale» diventano tutti momenti di alta musicalità. Davide Luciano era un Malatesta di ragguardevole livello, affrontato con una recitazione disinvolta, con una condotta tecnica esemplare – vedi un «Bella siccome un angelo» dall'impeccabile cadenza, ed una vocalità raffinata e generosa arricchita da una girandola di trovate coloristiche. Amabile anche la radiosa Norina/Sofronia di Barbara Bargnesi, piccante e maliziosa in scena, e ben salda nella tessitura di soprano leggero cui è destinato tale ruolo. Con una voce gradevole nella stoffa, accortezza nelle colorature e risolutezza nelle incisive agilità, il soprano genovese persuade l'ascoltatore già con il biglietto da visita del personaggio, cioè «Quel guardo il cavaliere... So anch'io la virtù magica» che ne delinea pienamente il carattere, e lo tiene in pugno sino alla fine. Quanto all'Ernesto di Alessandro Scotto Di Luzio, non v'è dubbio che appare scenicamente assai credibile nella sua giovanile presenza e che sappia farsi apprezzare dal pubblico; ma se da una parte ne apprezziamo il timbro di per sé molto accattivante e la voce gradevole e ampia nella gamma inferiore, si sente che tecnicamente c'è ancora qualcosa da mettere a fuoco, specialmente nell'evanescente registro superiore dove l'intonazione talvolta pare vacillare. Molto bene, per finire, Matteo Ferrara nella breve parte del Notaro.
Omer Meir Wellber appare impegnatissimo in questi giorni tra Carnevale e Quaresima, con ben tre opere in cartellone; oltre a Don Pasquale presiedeva infatti contemporaneamente a L'elisir d'amore e subito dopo La traviata, avendo appena diretto a gennaio I Capuleti e i Montecchi. Ben per lui; ci piace annotare che ha saputo scovare come sempre il giusto ritmo per una direzione spumeggiante e arguta e ha consegnato una bella varietà di colori, oltre che un intelligente equilibrio tra le parti dell'Orchestra della Fenice. Gli si può rimproverare un'agogica talora sin troppo stringente, che a volte potrebbe porre in difficoltà i cantanti, ma non certo la mancanza di musicalità e il senso narrativo, virtù che profonde sempre a piene mani. Insomma, è indubbiamente molto bravo; e se Diego Matheuz se ne va, a scadenza di mandato, il posto di direttore principale dell'orchestra veneziana lo vedremmo bene nelle sue mani. Egregia prestazione pure del Coro diretto da Claudio Marino Moretti, bravissimo ad animare la dinamica scena de «Che interminabile andirivieni» e puntuale nella serenata fuori scena. Non si deve infine omettere un deferente plauso alla prima tromba della Fenice, veramente impeccabile in «Cercherò lontana terra».